Fences, la vita vera che merita un Oscar (più di La La Land)

In molti scommettono per i canti, i balli e i sentimenti di La La Land, eppure non sarebbe affatto male se per questi primi premi Oscar dell'era Trump vincesse Fences, un film teatrale sulle gioie e i dolori delle vite ordinarie, quelle dove la gente, quando ha voglia di cantare, sussurra un blues

All’interno di Qu’est-ce que le cinéma?, il critico cinematografico francese André Bazin, mettendo a confronto il racconto cinematografico con quello teatrale, sostiene che l’aspetto peculiare del cinema sia il “rivelare, portare alla luce specifici dettagli che il teatro lascerebbe da parte”, decretando così una sorta di supremazia del cinema sul teatro. Una supremazia fondata sulla profondità del racconto, sulla potenzialità del dettaglio. In una parola, sulla supremazia del realismo. Guardando Fences — in italiano Barriere — l’ultimo film diretto da Denzel Washington tratto dall’omonima pièce teatrale scritta da August Wilson, si direbbe quasi il contrario.

Dialoghi serratissimi, pochi personaggi in scena, sostanziale unità di luogo, tempo e azione, regia praticamente assente, asservita dal primo all’ultimo minuto ai fiumi di parole degli attori. Fences non nasconde nemmeno per un istante la sua origine teatrale ed è proprio questa la sua forza dirompente: un flusso praticamente interrotto di dialoghi che, grazie alla strepitosa bravura di due grandissimi attori, Viola Davis e Denzel Washington, — su entrambi, senza dubbio, c’è da scommettere su una statuetta, lei come non protagonista, lui come protagonista — trasporta lo spettatore direttamente nel giardino di una famiglia afroamericana come tante altre, nel bel mezzo degli anni Cinquanta.

Denzel Washington è Troy Maxson, spazzino cinquantenne di Pittsburg dalla vita abitudinaria, apparentemente divisa tra il lavoro, le responsabilità domestiche, qualche bevuta con l’amico Jim, una moglie amorevole, un fratello matto e due figli di età molto diverse — 34 e 17 anni — non semplici da gestire. Il primo, Lyons, vuole fare il musicista, il secondo, Cory, vuole darsi allo sport, al football, esattamente come il padre, la cui carriera di battitore di baseball è andata in malora a causa del colore della sua pelle. Ci stanno tutti qui, in poche righe, gli ingredienti narrativi di Fences, il resto ce lo mettono loro, gli attori, con prestazioni da togliersi il cappello.

In molti lo hanno criticato proprio per la sua eccessiva teatralità, per il fatto di non essere riuscito a fare quello che Bazin scriveva nel suo saggio sul cinema: non aver aggiunto dettagli, non avere provato ad allargare l’orizzonte dello sguardo, di non aver, quindi, saputo utilizzare gli elementi che fanno del cinema il cinema, ricostruendo sostanzialmente il palco del teatro dove per anni gli stessi attori hanno recitato quelle stesse parti, senza aggiungere praticamente nulla.

Eppure è proprio quella l’unica carta che poteva chiudere il punto al buon Denzel, che, dopo aver già portato a casa due Oscar come attore, questa volta, oltre a quella per la sua incredibile prestazione da protagonista, si è guadagnato una nomination anche tra i Best Picture, a sfidare campioni del calibro di Arrival, La La Land, Moonlight, Manchester by the sea e pure il polpettone bellico di Mel Gibson.

Quest’anno sembrerebbe facile fare pronostici su chi si porterà a casa quella statuetta: quasi tutti sono concordi dice che toccherà a Chazelle e al successo agrodolce dei due innamorati di La La Land, bianchi, belli, ricchi e dotati. Ma sarebbe proprio bello se quest’anno, dopo tutto quel che sta succedendo tra Casa Bianca e dintorni, a portarsi a casa la stautetta più pesante di tutti sia proprio un film come Fences che, in due ore pulite, senza artifici buonisti, senza retorica e permettendosi anche un paio di spruzzatine di poesia, ci accompagna tra le gioie e i dolori delle vite ordinarie, quelle dove la gente, quando ha voglia di cantare, tiene la voce bassa e canta un blues.

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