Occident Ex-PressGli studenti e l’ossessione per il lavoro: «È più importante di tutto, anche della famiglia»

Chiara, Giulio, Elena, Ferdinando e tutti gli altri: abbiamo chiesto a dieci liceali di Milano di raccontare l'alternanza scuola-lavoro e il loro rapporto con il mondo del lavoro, nella settimana della lettera di Michele: «Il problema? È che non ci fanno fare niente»

Sofia parla chiaro e non ha paura dei giudizi esterni: «Studio al liceo classico e ho 17 anni. Perché dovrei pensare oggi a come entrare nel mondo del lavoro? Io non so se voglio lavorare, non so cosa vorrei fare di mestiere fra quindici anni e ho tutto il diritto di pensarla così». Lo dice polemicamente e la sua posizione è tutt’altro che condivisa dalla dozzina di coetanei intorno lei.

Chiacchieriamo con i giovani liceali per alcune ore, durante la settimana di cogestione, seduti dentro le classi del liceo Berchet, in centro a Milano. «Il problema non sono le 200 ore di alternanza scuola-lavoro previste dalla riforma» prosegue Sofia «se anche fossero 15 ore, 10 o 5 non mi cambierebbe nulla. Io contesto politicamente e personalmente quella scelta che dovrebbe essere volontaria, non obbligatoria. E pretendo che il mio liceo mi prepari alla vita non a lavorare in un’azienda». Bene, può anche suonare come una frase retorica ma intanto Sofia è l’unica, fra tutti i presenti, a pensarla così. Inutile provare a nascondere che è una minoranza nel mondo dei liceali. Le risponde Giulio, parlantina sciolta, capacità di argomentare e aria da filosofo, ma in realtà più concreto di quello che il suo look potrebbe suggerire: «Farsi qualche settimana di alternanza scuola-lavoro non mette certo in discussione il fatto che il liceo ti possa anche preparare alla vita o aprire la mente».

Sofia, giovane liceale: «Ho 17 anni, perché devo preoccuparmi adesso del lavoro? Il liceo mi deve insegnare ad aprire la testa». Ma su quindici giovani attorno, lei è l’unica a pensarla così

Si discute molto con questi ragazzi e di certo non gli si può rinfacciare di essere timidi, ignoranti sul mondo che li circonda o disinteressati alla loro condizione futura. Anzi, l’esatto opposto verrebbe da dire. Anche Chiara è una neodiciottenne ma ha già deciso tutto: «Mi faccio una triennale in economia, sono sicura che mi interessa e mi serve per capire il mondo». Nel frattempo vuole coltivare la passione per la fotografia – ha la reflex al collo anche mentre chiacchiera con noi e pubblica i suoi primi scatti di street photography sul profilo Instagram – con l’aspirazione di diventare una giornalista e coglie al balzo l’occasione che le si presenta: «Se posso seguirti, te o un tuo collega, qualche volta mentre lavori, così vedo come ci si muove». Non ha nemmeno un attimo di esitazione quando parla del suo futuro: «Il lavoro è più importante di tutto il resto. Di certo è più importante della famiglia» sostiene mentre si confronta con gli altri.

Chiara è sicura di voler studiare economia all’università e di voler coltivare la passione per la fotografia: «Il lavoro è più imporante di tutto il resto. Di certo più importante della famiglia»

Nessuno di loro lo dice apertamente, ma l’impressione che attraverso quel mezzo – il lavoro – passi l’intera realizzazione personale, è forte. E fa una certa specie, nella settimana dominata dalla lettera di Michele, il trentenne friulano che si è tolto la vita, e dalle successive interpretazioni, polemiche, fiumi d’inchiostro, editoriali e opinioni a ruota che si sono riversate su quel fatto. Ma fa specie anche perché usare alcuni concetti, come quelli di “fallimento”, “successo” o “realizzazione” – ammesso e non concesso che sia necessario usare queste categorie – e associarli al proprio lavoro, potrebbe non essere una grande idea. Potrebbe non esserlo sopratutto nella fase storica in cui l’occupazione giovanile in Italia vive la sua curva più drammatica. Forse, per questi giovani come per tanti altri, il lavoro è così importante proprio perché in Italia non c’è.

Lo desiderano il lavoro, certo, ma per il momento ne hanno “assaggiato” solo una piccola porzione in formato da studenti: sono tra i primi adolescenti, infatti, ad aver sperimentato il nuovo istituto dell’alternanza, previsto dalla riforma della “Buona Scuola”, dentro ai licei e non più soltanto nei tecnici e nei professionali dove già esisteva informalmente, in alcuni casi da decenni. «Non essere pagati vi crea qualche problema?» proviamo a chiedere cercando di provocare reazioni sdegnate. E anche qui le risposte stupiscono. I soldi non sono il vero problemaovvio, a nessuno di loro piace lavorare gratisma non ne fanno affatto una malattia. Le lamentele, le critiche, le vere e proprie opposizioni si trovano altrove, in altri argomenti.

Alternanza scuola-lavoro? Non essere pagati? Sono pochi a criticare o su un piano politico. Ciò che è dà fastidio è la disorganizzazione del Ministero e che ancora non esista una carta dei diritti per lo studente

Per esempio nel fatto che il Ministero non abbia ancora deciso e spiegato i dettagli di quanto vale e in che forma va presentata l’esperienza dell’alternaza scuola-lavoro in sede di esame di Stato. «Nessuno ci ha ancora detto chiaramente se dovremo o meno farne una tesina e quanto varrà» ci spiega ancora Giulio «però intanto le 200 ore in tre anni sono obbligatorie altrimenti non accedi alla maturità».

Altri ce l’hanno con la totale disorganizzazione che, almeno per il primo anno, ha travolto Miur e licei. «L’albo del Ministero con gli enti disposti a offire posizioni per l’alternanza non esiste e nemmeno la carta dei diritti per lo studente» s’inserisce Ferdinando, che l’estate scorsa è finito due settimane parcheggiato all’Ospedale San Raffale di Milano. A fare cosa? Non si sa, o almeno lui non lo ha capito: «Stavo lì, dentro a un reparto di ricerca, come osservatore passivo, non so nemmeno io cosa avrei dovuto apprendere».

Se si va nell’aneddotica e dentro i loro racconti di storture se ne trovano parecchie e gli umori si scaldano, in alcuni casi. Ma salta comunque all’occhio che le critiche non siano in aperta opposizione alla riforma, su un piano ideale o politico, ma piuttosto su come è stata gestita la sua realizzazione nel concreto, almeno per ora. «Vediamo come funziona nel pratico», questa la frase che quasi tutti i ragazzi con cui parliamo pronunciano.

Ferdinando è finito all’Ospedale San Raffaele di Milano. A fare cosa? «Non l’ho capito nemmeno io, stavo in un reparto di ricerca a osservare passivamente»

Quando si entra nel pratico però le critiche ci sono eccome: c’è per esempio chi ha dovuto spostare scatoloni colmi di documenti e ha fatto viaggiare bicipiti e braccia lungo le rampe di scale, dentro una fondazione che si occuperebbe di sostegno all’infanzia. Le prime trenta-quaranta ore di alternanza scuola-lavoro se ne sono andate via così, lungo le scale.

C’è invece chi al mattino si è svegliato presto, sì, ma per recarsi nel dipartimento di Informatica dell’Università Statale di Milano e svolgere lavori che un adolescente potrebbe anche gradire e parecchio: ascoltarsi un buon vinile per poi digitalizzazare il catalogo audio dell’ateneo. Due di loro lo raccontano quasi divertiti.

Poi c’è Elena, la più soddisfatta, che per un mese e mezzo ha assistito in prima persona ad operazioni di chirurgia dentro i reparti del Policlinico di Milano, accompagnata da un tutor che spiegava, a lei e altri sette compagni estratti a sorte dentro le classi (le terze liceo dell’anno scorso), i delicati passaggi dell’operazione. «Se prima potevo avere qualche dubbio adesso sono sicura di volermi iscrivere a Medicina» ci dice. Inutile specificare che il suo giudizio sull’alternanza sia positivo anche se non nega che il suo sia stato un caso molto fortunato anche rispetto agli amici.

Elena è la più soddisfatta ed è finita al Policlinico dove ha osservato in prima persona delle operazioni chirurgiche in compagnia di un tutor: «Ora sono sicura di voler studiare medicina»

Chiara – la fotografa sicura di voler studiare economia in triennale – la prima volta è finita in Cisl, nel sindacato: un giorno a settimana per tre mesi. «A pubblicare tweet» ci dice palesemente delusa e arrabbiata: «L’unica certezza che ho avuto è che volessero, in qualche modo, farci entrare nel sindacato». È sempre lei che conia un’espressione condivisa quasi da tutti: «Più che alternanza scuola-lavoro, questa è un’alternanza scuola-stage o scuola-tirocinio». Lo dice come se questo fosse il problema centrale. In pratica più che a lavorare li mettono a seguire dei progetti o “progettini”: convengi sul cyberbullismo o sulla violenza nello sport, altri sulle mafie, sui quali poi elaborare uno scritto o una relazione. Oppure c’è il caso dell’intera classe a cui è stato affidato l’ufficio stampa di una rappresentazione teatrale. Nessuno gli spiegato niente, c’era da sentirsi smarriti eppure riescono a trovare del positivo anche in questo: «Alla fine bisogna imparare a gestirsi da soli, a organizzarsi in autonomia. Il lavoro di oggi è anche questo».

Poi ci sono le situazioni paradossali, come quella di Luca e Nicolò, che sono finiti nello stesso studio legale e affidati alle cure di due avvocati praticanti. La prima praticante, 24 anni, si è portata Nicolò addirittura in tribunale e in cancelleria. La seconda si trovava nello studio da due settimane, alle prime armi e sommersa lei stessa di lavoro, figuriamoci se potesse mai occuparsi di Luca. «Alla fine avremmo dovuto scrivere noi stessi un ricorso» dicono con un sorriso amaro.

Vittorio ci parla di «estrema diversità fra le varie esperienze, non c’è nessuna omogeneità». Perché lui, ad esempio, è finito in un’azienda che si occupa di naming, cioè trovare i nomi adatti a determinati prodotti commerciali su commissione delle aziende produttrici. Gli è piaciuto, lo definisce «creativo e stimolante perché bisogna capire quali parole possono evocare determinate sensazioni».

Molti studenti vengono affidati a onlus e no-profit. «Se si chiama alternanza scuola-lavoro cosa mi mandi fare in un’associazione di volontariato?»

In molti si lamentano di essere finiti nelle no-profit, nelle associazioni che si occupano di decoro urbano oppure di mobilità sostenibile dentro la città. Non è che proprio se ne lamentino e basta, fanno una riflessione più articolata: «Se è alternanza scuola-lavoro cosa mi mandi fare in un’associazione di volontariato? È una cosa che se voglio posso tranquillamente fare nel mio tempo libero». Nel merito non hanno tutti i torti. E tuttavia questa smania di lavorare a 18 anni proprio non si capisce da dove arrivi.