TaccolaMorire di Amazon: così l’e-commerce farà sparire i negozi

Ne ha parlato Obama, mentre Warren Buffet ha venduto quasi tutte le sue azioni di WalMart. Secondo uno studio inglese un terzo dei lavoratori del retail sparirà entro il 2025. La strada per le catene di negozi però è sviluppare di più il proprio e-commerce e farlo convivere con i punti vendita

La rivoluzione tecnologica ha già colpito il lavoro nel manifatturiero, si appresta a farlo nel mondo delle banche e nei servizi avanzati. Potrà risparmiare il mondo del retail, cioè nei negozi e supermercati? In molti pensano di no. Sono di qualche giorno fa le parole dell’ex presidente Usa Barack Obama: «L’innovazione è inarrestabile e sta accelerando. Avete visto cos’è successo ai negozi, alle vendite dello scorso Natale. Amazon e le vendite online stanno uccidendo il retail tradizionale, e quello che è vero lì, sta per diventare vero attraverso tutta la nostra economia». Le ha pronunciate al termine di un’intervista in cui ha provato a spiegare che è la tecnologia, molto più della concorrenza del Messico o della Cina, a mettere a rischio il lavoro, e della necessità di trovare dei modi nuovi e creativi per gestire questo cambiamento, da affiancare alle tradizionali lotte sindacali.

Pochi giorni dopo è stato il turno di Warren Buffet, l’Oracolo di Omaha. Nel 2005 aveva comprato, con la sua società Berkshire Hathaway, azioni di WalMart per centinaia di milioni di dollari. Il 14 febbraio l’annuncio che era stato venduto il 90% delle azioni, con una dismissione che è durata qualche mese. Lo scorso dicembre, al meeting degli azionisti della sua società, aveva evocato Amazon quasi come un fenomeno naturale. «È una grande, grande forza, e ha già distrutto (disrupted) un sacco di persone e ne distruggerà di più».

È un’analisi riferita a una sola azienda, WalMart (che però nel 2017 ha annunciato l’assunzione di ben 10mila lavoratori) ma che si potrebbe estendere a tutto il settore. Gli scorsi mesi sono stati un annuncio dopo l’altro di chiusure o forti ridimensionamenti di catene (Business Insider ha parlato di “onda gigantesca”). Macy’s (un department store, equivalente di Rinascente) sta chiudendo 68 negozi e tagliando 10mila lavoratori e Limited sta abbassando tutte le sue 250 saracinesche, con un impatto su 4mila lavoratori. Kohl’s, Sears, Kmart e CVS hanno annunciato altre centinaia di chiusure. Altre catene alle prese con piani pluriennali di riduzione dei negozi sono American Eagle, Chicos, Finish Line, Men’s Wearhouse e The Children’s Place. L’effetto si vede anche nei mall, dove il traffico è in continuo calo almeno dalla metà del 2014.


Cosa porterà questo trend nel lungo periodo è questione di previsioni. Una l’ha fatta, nel Regno Unito, il British Retail Consortium, federazione dei negozianti britannici: entro il 2025 un terzo dei lavoratori del settore perderà il lavoro. In numeri fa 900mila persone e a essere colpite saranno soprattutto le piccole imprese del commercio e le aree più povere. La ricerca è un po’ viziata dal fatto di essere accompagnata dalla suggestione che tale dinamica sarà avvantaggiata dalla previsione di un salario minimo nel settore, da poco deciso dal governo britannico.

L’indiziato responsabile del futuro svuotamento del lavoro nella distribuzione, grande e piccola, nelle varie analisi rimane lo stesso: l’e-commerce in generale e Amazon in particolare. Sempre più comodo, sempre più affidabile nelle consegne e rassicurante nelle politiche di resi. Tra i suoi oppositori c’è l’Institute for Local Self-Reliance (ILSR), che negli Stati Uniti in una ricerca ha dato il senso della questione: se i negozi fisici, in media, impiegano 49 persone per ogni 10 milioni di vendite, nel caso di Amazon si scende a 23 persone, sempre per ogni 10 milioni di ricavi. Alla perdita di lavoro si dovrebbe aggiungere quella di gettito fiscale locale. Un’altra ricerca, “Amazon and Empty Storefronts“, condotta dalla società di ricerche Civic Economics, ha stimato in 222mila i posti di lavoro netti persi a causa dell’impatto di Amazon nel 2015. Stime difficili da verificare ma che hanno controbilanciato l’enfasi del fresco annuncio di Amazon sulla futura creazione di 100mila nuovi posti di lavoro negli States.

I tagli nei numeri

Se questi sono gli scenari futuri, che cosa dice il presente? Che, nonostante gli annunci delle chiusure, è presto per parlare di catastrofi. A gennaio negli Stati Uniti sono stati creati 39.400 lavori nel retail, secondo la National Retail Federation americana. Su una media di tre mesi, l’associazione dei negozianti calcola un incremento di 16.600 posizioni e su base annuale di 161mila posizioni. Numeri che ridimensionano gli allarmi lanciati da Challenger, Gray & Christmas, una società specializzata nell’outplacement. A dicembre Challenger aveva segnalato un calo delle assunzioni nella stagione natalizia: -9% nel 2016, il terzo anno consecutivo di discesa. Ed è significativo guardare al numero dei licenziamenti durante tutto il 2016 e il 2015: se si esclude l’annus horribilis 2009, sono state le annate con più layoff.

Una nota della stessa Challenger sui tagli effettuati a gennaio (22mila, stesso livello del 2016), racconta di come ci siano dinamiche in atto tutt’altro che positive. «Un’impennata di licenziamenti nel retail a gennaio è diventata uno standard. La maggior parte dei retailer incrementano le assunzioni negli ultimi tre mesi dell’anno per gestire la corsa delle Feste. Comunque, visto che i consumatori vanno fanno acquisti sempre più online, i retailer non stanno solo dismettendo temporaneamente lavoratori stagionali, ma anche aumentando le chiusure dei negozi e lasciando a casa personale permanente».

Negli Stati Uniti i consumi crescono ma quelli online al ritmo doppio. Secondo le statistiche della National Retail Federation americana, il numero di shopper online durante il ponte del Black Friday ha superato di 10 milioni quelli fisici.


Questi sono gli Usa. E l’Italia? Qui i consumi sono molto meno vivaci e la crisi si è sentita eccome. I dati li ha calcolati l’ufficio studi di Confcommercio, su base Istat. Dal 2007 al 2016 gli occupati nel commercio sono scesi del 7%, mentre nel totale dell‘economia scendevano del 5,5% (nella ristorazione sono invece saliti del 5%). A essere colpiti, più che i dipendenti (-3,5%, ossia -63mila dipendenti), sono stati gli indipendenti. È stato come un meteorite: 193mila posti di lavoro in meno, pari al 10,4 per cento. Molti di questi sono riusciti a trasformarsi in dipendenti: il macellaio con il negozietto si è fatto assumere al banco del supermercato.

Gli ultimi mesi hanno visto casi di cronaca gravi. Tre su tutti: il licenziamento da parte di Carrefour di 600 persone. La crisi di Unicoop Tirreno. E la messa all’asta di Mercatone Uno. Come mostrano i dati elaborati per Linkiesta dal sindacato Fisascat-Cisl, al di là dei casi eclatanti, ci sono stati dimagrimenti anche da parte di altre catene di supermercati, come Auchan e Panorama-Pam. Mentre, in controtendenza, sono andati Esselunga e Lidl (ed Eurospin, non monitorata nella tabella).

Un’analisi di Mediobanca di gennaio ha invece mostrato come la quota di lavoratori per mille metri quadrati sia rimasta stabile. Oltre ai licenziamenti, spiega Vincenzo Dell’Orefice, segretario nazionale della Fisascat, uno degli effetti della prolungata stagnazione dei consumi degli ultimi anni è stato il progressivo salire della quota di lavoratori con contratti part-time tra i supermercati. «La crisi in primo luogo si è manifestata con una forte flessibilità funzionale – spiega -. Il part-time medio è di 20 ore, che vengono portate a 40 ore nei periodi in cui le cose vanno bene, come le feste natalizie. La prassi prevede ormai il full-time solo per alcune figure, come i capi turno e i cosiddetti “produttori”, come i macellai. Tutti gli altri, come i cassieri, sono part-time. In un formato come l’ipermercato il tasso di partecipazione part-time è ormai del 70 per cento. Tutto questo, se ha limitato i licenziamenti, ha prodotto una questione sul reddito».

La cura dell’omnicanalità

Se queste sono le fotografie dell’esistente, tutte le analisi, da qualsiasi parte giungano, arrivano alla stessa conclusione: le battaglie di retroguardia non servono e l’unico modo per “non morire di Amazon” è fare i conti con la realtà. Una strada è quella di aumentare l’apprezzamento per il servizio dei commessi, che dovranno per questo essere maggiormente formati. Una seconda è quello di un vero patto con l’e-commerce. Lo spiega Mariano Bella, direttore dell’ufficio studi di Confcommercio: «Come in tutti i casi del passato, penso che ci saranno effetti negativi nel breve periodo e positivi nel lungo. Non dobbiamo temere la tecnologia. Stiamo lavorando per far capire agli associati di non fare battaglie di retroguardia. La strada da seguire è quella della multicanalità: le imprese potranno avere uno showroom e poi vendere online. È un messaggio che sta passando, abbiamo già fatto un accordo con Amazon per fare aprire le vetrine dei negozi fisici sul sito».

La strada della multicanalità e ancor più dell’omnicanalità è emersa come strada obbligata dalle ricerche di Exane Bnp Paribas e The Boston Consulting Group per Altagamma, presentata nei giorni scorsi. Secondo l’analisi di Exane, limitata a sei grandi marchi di alta moda, la media di incremento del network dei negozi a livello mondiale è scesa dall’8 e 9% degli anni precedenti al 2% del 2016. La dinamica è stata ancora più in frenata nel caso della Cina, dove hanno ridotto la rete marchi come Celine, Prada, Bottega Veneta, Louis Vuitton e Zegna e dove solo due marchi, Gucci e Versace, sono stati in forte espansione, più di dieci nuovi negozi. Il 2016, è stato raccontato sul palco dell’“Altagamma Consumer and Retail Insight”, è stato il primo anno in cui i monomarca chiusi sono stati pari a quelli aperti. Questo non significa che il negozio monomarca sia meno centrale. Solo, diventa il perno di un sistema che si gioca sulla omnicanalità. Diventa cioè una vetrina dove far vedere e toccare i vestiti e dove dare consigli. Le vendite potranno avvenire in negozio o online. C’è spazio per tutti: chi compra sia online che nel canale fisico spende il 40% in più di chi compra solo nel canale fisico. Certo, è un quadro un po’ preoccupante per il mondo del franchising.

Il caso di Macy’s è indicativo che questa strada è già seguita nei percorsi di ristrutturazione. La strategia messa in atto dalla catena è piuttosto di un taglio dei costi unito a un forte investimento nelle operazioni online. Diecimila lavoratori sacrificati potrebbero salvare gli altri, almeno per un certo periodo.

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