All’inizio di Indiana Jones e l’ultima crociata, c’è un episodio in cui Indy non è impersonato da Harrison Ford, ma da River Phoenix. È il momento in cui il giovane boy scout Indy, dopo la fuga dalla gang di tombaroli a cui ha sottratto la Croce di Coronado, riceve in dono dal capo della gang il suo cappello. «You lost today, kid», oggi hai perso, ragazzo, gli dice calcandolgi il suo cappello in testa, «but that doesn’t mean you have to like it», ma non è detto che debba piacerti. È un episodio che dura una decina di minuti e sostanzialmente è slegato da qualsiasi altra peripezia del professor Jones “da grande”, ma in quei dieci minuti c’è tutto il personaggio: terrorizzato dai serpenti, mosso da ideali puri, sprezzante dei rischi e che, soprattutto, non fa calcoli e non pondera, ma fa quel che è giusto. Al netto della fobia opzionale verso i serpenti, il perfetto boy scout
Sarà per l’immagine di copertina — che nell’edizione italiana è uno scout di Normal Rockwell con lo sguardo al chilometro e la mano destra semi aperta nella Promessa — ma prima di intraprendere la lettura de Il cuore degli uomini, il nuovo romanzo dello scrittore americano Nickolas Butler, viene quasi naturale, almeno per chi è nato tra i Settanta e gli Ottanta, pensare a quell’immagine: River Phoneix, giovane boy scout ligio al dovere di fare ciò che è giusto, eroe trafelato e tremendamente americano. Ma dura poco più di qualche pagina. Basta entrare un secondo nella vita di Nelson il Trombettiere per scoprire che questo romanzo in realtà non è affatto un romanzo sull’eroismo, né sull’orgoglio scout.
Il cuore degli uomini è un romanzo fatto a strati, a episodi sparsi lungo mezzo secolo, dall’estate del 1962 all’autunno del 2019, e in cui ogni snodo è un punto di osservazione per assistere all’evoluzione della parabola umana di una certa working class americana, quella che non abita a New York ma nella provincia, in questo caso il Wisconsin, esattamente quella che, a detta di molti, ha permesso a Trump di diventare presidente degli Stati Uniti, non si capisce ancora bene se andando a votare o disertando i seggi.
Butler srotola le traiettorie di tre generazioni di americani, nonni, padri e nipoti, dai baby boomers ai millennials, ognuna fotografata nell’esatto momento in cui è stata alle prese con le radici di quel sogno americano fatto di uomini, di avventura, di natura e di violenza che è l’estate al campo scout. È un mondo popolato solo da uomini, tende, latrine e testosterone e, a fargli da contorno, c’è un paesaggio morto. Dove nel sogno americano c’era la frontiera, ora non c’è altro che desolazione: le infinite praterie selvagge si sono ritirate, ristrette, in cui le distanze non si misurano più in sonni, come faceva Jack London, ma in ore passate in macchina.
«Campi e campi di mais di proprietà della Cargill o di soia della Pioneer alti fino ai fianchi», fotografa Butler così il panorama, in uno dei pochi momenti in cui lo descrive: «cortili sporchi di merda di mucche da latte e parcheggi per roulotte scoloriti e desolati; fattorie che cadono a pezzi e implorano un’annaffiata di benzina e un accendino, cimiteri circondati da piante di tuia avvizzite e reti metalliche, silos di pietra derelitti, fiumi del Nord piccoli e medi, foreste di aceri e di querce e di abeti rossi oltrepassati a novanta chilometri all’ora». L’America, oltre a non essere più un paese per scout, non è manco più un paese per panorami.
È un’America che del leggendario West non ha perso soltanto i panorami, uno dei punti fermi di un sogno americano che è durato quasi un secolo. Perché in quella provincia dell’impero anche i cuori degli uomini non sono più gli stessi. Lo spaccato dell’America che ci racconta Butler è una bolgia popolata da uomini deboli, fin da bambini, uomin vili e codardi, in una specie di notte in cui tutte le vacche sono nere, in cui sparisce persino la più classica delle distinzioni americane, quella tra i buoni e i cattivi.
«Il mondo non è fatto da persone buone e cattive», dice Trevor, uno dei protagonisti, alla moglie Rachel in uno dei più bei dialoghi del libro, e continua: «Il mondo è fatto da persone che hanno fame e persone che non hanno fame. E una cosa che ha a che fare con l’energia, l’entropia. Se hai fame di cibo, avrai anche fame di Dio. O di politica, o di qualche forma d’amore. Le persone che hanno fame hanno dei buchi dentro che non possono essere riempiti. Non fraintendermi. Ho visto persone senza cibo in pace con il mondo. Sono stato in villaggi dove persone che stavano per morire di inedia mi hanno offerto la cena. Il cibo non ha niente a che fare con tutto questo; i buchi di cui parlo riguardano una fame più profonda. Quindi, se voglio che impari a usare una pistola, non e per condividere un hobby. E neanche perché penso che sia divertente. E perché voglio che tu sia pronta»
E forse è proprio in quei buchi profondi, in quegli occhi senza luce di uomini affamati, che sta proliferando quell’America provinciale, gretta, che forse non è nuova, ma che è senza dubbio sempre più evidente e, anche se non siamo stati proprio dei campioni nel saperla vedere emergere, ci fa sempre più paura. È una provincia dell’Impero nel cui cuore cova un’anima vile, debole, maschilista, moralmente impoverita. Un’America che forse si è dimenticata come si sogna, popolata di boy scout cresciuti, uomini affamati e potenzialmente capaci di tutto. E le donne? Le donne resistono, e fissano il vuoto.
Un’ultima nota, più che altro una curiosità. Nell’introduzione di Non è un mestiere per scrittori, il reportage narrativo sulla letteratura americana di Giulio D’Antona, Nickolas Butler ha parlato del Grande Romanzo Americano, ovvero dell’oggetto mitologico che nutre i terrori notturni e i sogni segreti di tutti gli scrittori statunitensi da qualche decennio. Ha scritto: «Per quanto mi riguarda, il Grande Romanzo Americano deve contenere tre cose: una famiglia, un panorama e un combattimento». Ora, non so quale fosse l’obiettivo di Butler, ma anche se in questo libro le famiglie sono famiglie mancate, i panorami sono panorami mancati e pure i combattimenti, alla fine, sono tutti combattimenti mancati, la sensazione è che dal G.R.A., ammesso che esista, Butler ci sia andato molto più vicino di tanti altri suoi colleghi.