Non c’è Europa senza un esercito europeo

Il disimpegno dalla Nato sbandierato da Donald Trump e la Brexit aprono la strada a una nuova politica di unificazione europea, quella che passa per un esercito comune. Non è cosa semplice: richiede integrazione politica e industriale, ma il libro "Difendere l’Europa" spiega come si può realizzare

Per dirlo ora ci vuole un certo coraggio: da un lato ci sono le accuse dei partiti sovranisti, dall’altro gli attacchi (ben più seri) dell’America guidata da Donald Trump. In un momento storico in cui sembra che il progetto europeo sia destinato al fallimento, il libro di Lorenzo Pecchi, Gustavo Piga e Andrea Truppo, Difendere l’Europa, pubblicato dalla Vitale & Co., va controcorrente. Dice che bisogna scommettere sull’Europa, ma non solo. Che occorre rilanciare il progetto di unità e, soprattutto, che si deve puntare su un aspetto particolare: la difesa. In parole semplici, serve un esercito europeo.

Non è un’idea nuova – come fa notare Lucio Caracciolo nella sua introduzione. Di una forza armata europea si parla già nel 1950, ma venne affossata dalla Francia dopo solo quattro anni. Il compito della difesa militare, nel frattempo, viene assorbito dalla Nato (deve: “tenere gli americani dentro, i russi fuori, e la Germania sotto”). Spinti dall’alleato Usa ci si concentra sulla Guerra Fredda e poi, con la caduta dell’Unione Sovietica, sulla cooperazione, aprendosi a nuovi Paesi, fino alla lotta al terrorismo mondiale post-11 settembre. L’Europa partecipa, ma in subordine.

Ora però il quadro è cambiato: «Nel 2016, apparentemente quasi in sordina, l’Unione Europea si è ritrovata a discutere di come avviare nuovamente un processo di integrazione della nuova difesa». È la risposta, ancora debole, a un «cambio di paradigma» dovuto a diversi fattori, tra cui «il mutato interesse dell’alleato statunitense nello scacchiere mondiale» (sempre più concentrato sul Pacifico), ma anche «i nuovi attacchi interni ed esterni che si è trovata fronteggiare l’Europa». E, infine, «l’uscita del Regno Unito, tradizionalmente contrario a una difesa comune, dall’Unione Europea».

Divisi, con obiettivi diversi, con livelli tecnologici diversi, con eserciti che hanno preparazioni diversi, i Paesi europei sprecano i loro soldi: con la metà della spesa degli Usa, l’Europa riesce a esprimere meno del 10% della capacità operativa americana

Insomma, grande è la confusione sotto il cielo. E la situazione per un esercito europeo è eccellente. Anche perché le sfide sono serie. La militarizzazione delle potenze emergenti (cosiddette) è costante: la Cina negli ultimi cinque anni ha accresciuto la sua spesa nella sicurezza dell’85%, per una spesa totale che si aggira sui 215 miliardi di dollari all’anno; l’India l’ha aumentata del 5,5%, per un totale di 52 miliardi annui. Stati Uniti ed Europa, dopo la crescita di investimenti nel settore post-11 settembre, hanno visto una flessione dovuta alle difficoltà dell’economia. I primi han visto una diminuzione del 21,4%, mentre per noi europei è – 29,9% con la differenza, sostanziale, che gli Usa investono comunque 596 miliardi di dollari ogni anno, mentre la Ue a 27 “solo” 221. Molto meno della metà.

Non va dimenticato poi che, in ogni caso, confrontare le cifre investite dall’Europa con potenze singole come Cina e Stati Uniti non è un criterio sufficiente se si vuole davvero rendere conto delle sue capacità militari. Al contrario. La difesa europea «oggi è un mosaico composto da tante piccole tessere, ognuna delle quali riesce a trasformare in operatività solo una piccola frazione degli investimenti che riceve». Divisi, con obiettivi diversi, con livelli tecnologici diversi, con eserciti che hanno preparazioni diversi, i Paesi europei sprecano i loro soldi: con la metà della spesa degli Usa, l’Europa riesce a esprimere meno del 10% della capacità operativa americana. Un risultato desolante, anche perché nessun Paese europeo, oggi, può pensare di fronteggiare gli impegni globali basandosi sulle sole risorse a sua disposizione.

La strada appare allora segnata: serve una difesa europea comune. E occorre passare attraverso una politica estera comune (all’inizio, almeno nelle sue linee generali) ma, soprattutto, attraverso una politica industriale condivisa. Cioè: integrare le capacità produttive, il procurement, le conoscenze tecnologiche, il personale. Non da meno, trovare anche una lingua comune e progetti comuni. Le spese militari servono, e non solo per difendersi dalle (sempre più evidenti) minacce che circondano l’Europa.

La volontà di disimpegno americano, soprattutto dopo l’arrivo di Trump, e la scissione britannica hanno aperto la strada. Resta solo da percorrerla. La classe politica europea sarà in grado di farlo?

Investire nella difesa significa, a lungo andare, investire nello sviluppo. Non è un caso che il libro passi in rassegna le maggiori innovazioni del secolo, compreso internet, sottolineando che si tratta di ricadute e derivati dalla ricerca militare. Per un politico a un comizio sarà difficile da ammettere, ma la spesa militare significa posti di lavoro e innovazione. Tra effetti diretti, indiretti e indotti, segnala uno studio della società di analisi Prometeia citata dagli autori, la spesa militare rende: il valore aggiunto per l’Italia si aggira intorno ai 10,5 miliardi di euro, pari allo 0,7% del Pil, cioè 156mila euro di posti di lavoro e quasi cinque miliardi di entrate fiscali. Per dirla con uno slogan: per ogni euro investito ne viene generato uno e mezzo; per ogni lavoratore impegnato nel settore militare, ne servono altri due e mezzo nella filiera e nell’indotto.

Armarsi conviene, ma il libro non si ferma qui. Esortare i Paesi europei a proseguire lungo questa direzione, cioè integrando le proprie industrie e mettendo allo studio progetti di collaborazione e affiancamento per la difesa, è buona cosa. Gli autori però presentano anche un modello da seguire, un piano che aiuterebbe a superare le diffidenze (storiche e culturali, ma anche strategiche) dei Paesi europei, cioè un Defence Compact, fratello maggiore del Fiscal Compact (en passant, bocciato dagli studiosi).

Al centro, un fondo per l’innovazione e per la difesa comune (FIDF). Uno strumento di policy per promuovere politiche comuni con obiettivi chiari, ad esempio promuovendo una spesa nella difesa al 2,5% del Pil annua per ciascun Paese, e la possibilità di erogare il 10% degli investimenti in ricerca e sviluppo tecnologico. Le regole, chiare, mirano a incentivare l’efficientamento e la modernizzazione delle forze armate europee, a discapito delle tendenze protezionistiche nazionali. Un passo vero (e concreto) verso una politica comune e un’unità europea profonda. Che renderebbe l’Europa protagonista credibile sulla scena globale, in grado di interferire nelle contese e attivare politiche di stabilizzazione. Insomma, prendendo il posto degli Stati Uniti.

È il momento giusto, insistono gli autori, in faccia alle pretese sovraniste disseminate, in modo più o meno marcato, in ogni Paese del Vecchio Continente. Ma, come emerge, è anche una questione di buon senso: la volontà di disimpegno americano, soprattutto dopo l’arrivo di Trump, e la scissione britannica hanno aperto la strada. Resta solo da percorrerla. La classe politica europea, finora apparsa inconcludente, timorosa delle crisi e concentrata sul breve periodo, sarà in grado di farlo? Questo, purtroppo, il libro non lo dice.

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