Per colpa della politica l’Oscar è diventato noioso come il Nobel

L'antitrumpismo fa più danni del politicamente corretto. L'89esima edizione dei premi Oscar verrà ricordata a lungo, ma per i motivi sbagliati: scelte politiche, comizi e una incredibile gaffe finale nell'assegnazione del premio più importante

Non c’è neppure da scommetterci, tanto è sicuro: la cerimonia per l’assegnazione degli 89esimi premi Oscar, conclusasi al Dolby Theatre di Los Angeles quando in Italia erano da poco passate le sei del mattino, verrà ricordata molto, ma molto a lungo. Non per motivazioni cinematografiche, né, purtroppo, per la straordinaria e inedita pantomima che ha portato Warren Beatty e Faye Dunaway a consegnare la statuetta più importante di tutte — quella per il miglior film — nelle mani, sbagliate, dei produttori di La La Land (vincitore alla fine di sole 6 statuette sulle 14 nomination) invece che di quelli di Moonlight, protagonista di questi Oscar con premi pesantissimi al film, alla sceneggiatura e al migliore attore non protagonista. Questi Oscar verranno ricordati per la loro dimensione politica, che mai come quest’anno, purtroppo, ha fatto sentire il suo peso influenzando discorsi, dichiarazioni, presentatori, ma anche la lista dei vincitori designati dall’Academy.

L’ombra lunga del ciuffo di Trump si è fatta sentire fin da subito, quando un Jimmy Kimmel (che ancora non aveva idea di che diavolo gli sarebbe toccato vedere su quel palco) ha scelto di metterla subito sull’ironia: «Ci stanno vedendo in milioni di americani, ma anche in tutto il mondo, in oltre 225 paesi che ora ci odiano», ha cominciato, ringraziando subito Trump per il suo effetto benefico sugli Oscar: «Vi ricordate l’anno scorso, quando gli Oscar sembravano addirittura una manifestazione razzista?».

Di momenti anti Trump ce ne sono stati a volontà, ben oltre le battute del presentatore: dalla premiazione “in contumacia” di The Salesman del regista iraniano Asghar Farhadi che, per protestare contro il Muslim Ban di Trump che ha colpito il suo paese, non si è presentato a Los Angeles e ha mandato un messaggio da leggere, passando per il premio all’attore Mahershala Ali, musulmano, miglior attore non protagonista in Moonlight, quello a Viola Davis come miglior attrice non protagonista in Fences, e arrivando fino alla dedica “a tutti gli immigrati” di Alessandro Bertolazzi, vincitore insieme a Giorgio Gregorini e a Christopher Nelson dell’Oscar per il miglior trucco per Suicide Squad.

Le celebrities americane, soprattutto quelle cinematografiche, non hanno mai nascosto il proprio antitrumpismo. Lo hanno fatto prima delle elezioni, sostenendo a più riprese e in tanti modi — quasi tutti abbastanza ridicoli — la candidatura di Hillary Clinton, ma anche dopo le elezioni, organizzando incontri, partecipando a manifestazioni, lanciando messaggi contro la nuova amministrazione Trump. Che lo abbiano fatto agli Oscar c’era da aspettarselo, è chiaro, ma non c’è molto di cui essere contenti.

Purtroppo non è gridando qualche bel messaggio progressista in un discorso preparato per l’occasione più glamour dell’anno e ricevende il più esclusivo premio del mondo in uno dei più prestigiosi teatri americani che si combatte una lotta politica. Perché purtroppo premiare un film come Moonlight non cambierà di una virgola la vita nei ghetti neri americani; esattamente come premiare un attore musulmano come Mahershala Ali, un’attrice afroamericana come Viola Davis o un regista iraniano assente in sala come Asghar Farhadi non renderà l’America un paese più aperto, più libero e più giusto. L’America non è quella dentro il Dolby Theatre di Los Angeles, è quella fuori.