The Great Wall, la più spettacolare marchetta della storia del cinema

Si intitola The Great Wall ed è il primo action movie cinamericano: girato dal più importante regista cinese, Zhāng Yìmóu, ha come protagonista Matt Damon, punta a spopolare nei due mercati più grandi del mondo, Cina e Stati Uniti, ma sembra anche un'operazione culturale della Cina nel mondo

Malgrado i rapporti tra gli Stati Uniti di Donald Trump e la Cina non siano partiti proprio con il piede giusto e siano ancora lì a basculare tra gli insulti e i fair trade, c’è un campo, molto lontano dalla geopolitica, in cui States e Cina hanno provato per la prima volta una grande alleanza: il cinema. Il film in questione, in particolare, si intitola The Great Wall ed è il primo action movie cinamericano. Lo ha girato il più importante regista cinese Zhāng Yìmóu — quello di Lanterne rosse —, prende un genere born in the USA come l’avventurona in costume con effetti speciali a palla, è parlato per metà in cinese, ma ha come protagonisti occidentali l’americano Matt Damon e Pedro Pascal (Oberyn di Game of Thrones, per chi segue la serie). Ah, e ormai è praticamente impossibile non averne sentito parlare.

Il motivo per cui The Great Wall dovrebbe suonare familiare a pressoché tutti è molto semplice e c’entra poco con il contenuto del film, con il cast o con il regista. C’entra con un’altra cosa, una cosa che si chiama marketing e che, per questo colossal, ha visto decuplicare gli sforzi che di solito si mettono nel lancio di un film. A lavorarci si sono messi quelli della Legendary, casa di produzione indipendente (produttrice dei film di Nolan, ma anche di altrettanti successi come Jurassic World, Pacific Rim, Una notte da leoni e molti altri) di recente acquisita dai cinesi di Wanda e partner prima di Warner e poi di Universal, gente abituata a grandi budget e botteghini sfondati.

Qualche numero, giusto per capire le esatte dimensioni di questa impresa: se per il lancio di un colossal come Pacific Rim l’unità marketing predisposta dalla Legendary contava su 8 persone, per il lancio di questo, quella stessa squadra è stata aumentata a 60 unità. Lo sforzo è stato immenso. Secondo i calcoli di Variety, i produttori avrebbero pubblicato più di “più di 60 versioni diverse di video promozionali online, più il classico trailer un teaser e anche tre video musicali”. Il trailer in Cina, è girato in ogni cinema a partire da due mesi e mezzo prima della data di uscita cinese, il 16 dicembre 2016.

Anche qui da noi la campagna marketing è stata abbastanza elefantiaca, anche se forse un filo meno invasiva, soprattutto a livello video, di quella cinese. I due trailer ce li siamo ciucciati anche noi, più tutta la comunicazione video via social di Universal, che da circa una settimana sta facendo girare anche in italiano i stralci del film preparati per la Cina e che, per i lancio, ha organizzato un’anteprima in grande stile, con tappeto rosso e l’intera squadra e società dell’Inter, di proprietà cinese, invitata in sala.

Ma al di là della parte produttiva e commerciale, com’è questo film? The Great Wall mantiene le promesse del genere, totalmente, sia nel bene che, ovviamente, nel male. Nel bene, e non è effettivamente scontato, ha la forza di mantenere la tensione e il ritmo dell’avventura dall’inizio alla fine, è visivamente pazzesco, con effetti speciali e 3D usato bene, ha anche il colpo, sempre apprezzato nei film in costume, di riuscire a non prendersi totalmente sul serio e allentare ogni tanto le maglie.

C’è un altro punto. Qualcuno ha accusato il film di essere viziato da whitewashing, parole inglese che indica la pratica di usare per parti che richiederebbero attori di altra etnia attori bianchi famosi soltanto per motivi commerciali. È una cazzata. I ruoli di Matt Damon, Pedro Pascal e Wiliam Defoe sono stati dati a tre bianchi perché dovevano starci tre bianchi, laggiù, dietro la muraglia insieme a sette milioni di guerrieri cinesi, mentre miliardi di bestie venute dal buco del culo dell’inferno stanno assediando la Cina.

Ci devono essere perché, oltre all’obiettivo naturale del profitto economico — in particolare della convergenza dei due più grandi pubblici del mondo, quello occidentale e quello cinese — sotto sotto sembra quasi che ci sia anche un obiettivo culturale, come se tutta l’operazione fosse anche un content marketing della cinesità per noi, che è vero che siamo ormai abituati da circa un secolo ad avere un quartiere cinese in ogni città, ma che, ed è altrettanto vero, non vediamo ancora di buon occhio il ruolo che la Cina si sta prendendo in questi anni nel mondo.

In questo il film fa un’operazione culturale abbastanza raffinata: prende quello che, agli occhi di tutti, è da sempre sia il simbolo della Cina che il simbolo della divisione — The Great Wall, lka Grande Muraglia Cinese — e le inverte totalmente il senso semantico. Se cade la Muraglia, cade tutto il mondo, dice a un certo punto la Principessa Lin. Cosa vuol dire? Che mettendo nella parte degli assedianti i mostri al posto di qualche popolazione del Nord dell’Asia, i nemici diventano loro, i mostri. Con un colpo di sceneggiatura, la muraglia non è più lo stesso muro che i nazionalisti di oggi minacciano di costruire per separare il mondo — quelli di Trump e di Orban per esempio — ma diventa un muro che separa l’Umanità dai mostri infernali.

L’ultima carta che chiude il punto a Zhāng Yìmóu è una specie di lezione all’Occidente. La Cina, infatti, non soltanto è l’ultimo baluardo della speranza umana contro gli infernali Taotie, ma è anche un modello di società, equa, aperta e giusta, una società matriarcale in cui le donne non solo combattono in prima fila — le più eroiche sono delle guerriere volanti che si lanciano dalla cima della Muraglia in una specie di bungee jumping — ma comandano direttamente l’esercito.

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