Tim Parks: «Brexit ovunque? Presto o tardi anche l’Italia deciderà se stare o no in Europa»

Lo scrittore vive in Italia dal 1981, avrebbe votato contro l'uscita dall'Ue ma è convinto che l'Europa abbia fatto un errore esistenziale: non è diventata una comunità, c'è solo qualcun altro che comanda

E’ la rivincita della storia, imbrigliata nelle burocrazie governative. «Gli inglesi rimarranno quello che sono sempre stati». Tim Parks è uno scrittore inglese che dal 1981 vive e insegna in Italia. L’avvicinarsi della Brexit, quella vera e propria, sta interrogando gli europei su quello che sono diventati nel secondo dopoguerra. Per Parks, che se avesse potuto avrebbe votato per rimanere nell’Ue, non è stato (solo) il nazionalismo a spingere il suo Paese d’origine verso l’uscita da un’Unione sempre meno popolare. E’ stata invece l’illusione di livellare i caratteri identitari dei popoli, senza creare un comune senso d’appartenenza. «Una cosa è fare un’Europa unita, perché tutti hanno uno stesso destino – dice lo scrittore intervistato da Linkiesta.it -. Un’altra cosa è avere soltanto a che fare con qualcuno che comanda e decide chi è promosso e chi bocciato». Quasi un anno dopo il referendum sulla Brexit, il sentimento anti-europeista si è consolidato in molti Paesi europei. E se il modello britannico non è imitabile in tutto e per tutto, proprio per via della storia che si somiglia ma non si ripete, c’è un elemento che secondo Tim Parks può essere copiato: decidere, in un senso o nell’altro, prima che l’esasperazione popolare abbia il sopravvento. Anche in Italia.

Professor Parks, intanto chi sono gli italiani per gli inglesi e gli inglesi per gli italiani?
È evidente che da un paio di secoli entrambi si usano a vicenda per definirsi. L’Italia è stato il primo Paese al di là delle Alpi ad apparire veramente esotico per gli inglesi. È arte, cibo, bellezza, sole. Per gli inglesi, l’Italia è un Paese positivissimo o negativissimo: o si parla di queste bellezze o si parla della mafia e della corruzione. Viceversa gli inglesi, come anche i tedeschi, vengono visti dagli italiani come un popolo ordinato, dove certe cose non succedono mai. Per esempio, ci si dimette per una laurea fasulla. A livello grezzo, di stereotipi, siamo ancora qui. Quello che vedo io oggi è però molto più interessante.

Procediamo, allora.
Vedo che si parla poco del fatto che l’Inghilterra è diventata una meta di molti italiani. O, meglio: se ne parla, ma non si dice il perché lo è diventata. E lo è diventata perché c’è stata, in Inghilterra, un’apertura a chi ha merito, un’apertura che ha radici storiche. Si va in Inghilterra e si trova un dottorato o un lavoro, senza avere gli appoggi che in Italia servirebbero. Ho due figli nati a Verona, dove viviamo, che hanno fatto questo percorso.

Quindi, c’è qualcosa che va oltre l’oggetto della Brexit?
Gli inglesi sono stati molto aperti anche prima che ci fosse un’Unione politica così stretta. Però questo è stato a sua volta un problema, che spesso chi parla della Brexit sottovaluta.

E sarebbe?
Quando l’Ue si è allargata a Est, Francia e Germania hanno chiesto tre anni di moratoria degli immigrati da quei Paesi di nuovo ingresso. La Gran Bretagna non lo ha fatto, invece. E così in pochi anni sono arrivati un milione di polacchi. Tutta la faccenda della Brexit va messa in questo contesto. L’atteggiamento di apertura estrema ha inevitabilmente diffuso il senso che il Paese non fosse più in mano agli inglesi.

Questo può riguardare anche il rapporto con gli immigrati italiani, che sono tanti?
Quest’immigrazione dall’Italia, ma anche quella dalla Spagna, è soprattutto un’immigrazione che chiamerei di lusso, proprio per le ragioni che le dicevo prima. Si tratta per la gran parte di persone, di giovani che nel loro Paese si trovano davanti a un sistema bloccato e che al termine del percorso di studi devono trovare contatti per andare avanti. Così se ne sono andati.

Cambierà quindi qualcosa per loro?
No. Probabilmente cambierà pochissimo. Si sottovaluta che il Trattato di Maastricht è arrivato molto tempo dopo l’apertura del mercato inglese. Io sono venuto in Italia nel 1981 e non è che l’Europa fosse integrata come lo è adesso. Quindi, prevedo che l’Inghilterra continuerà ad accettare persone dall’Italia e dalla Spagna. Ma quello che diminuirà sarà l’immigrazione non qualificata. Come quella polacca, anche se non c’è nulla contro i polacchi.

Il referendum britannico del 23 giugno scorso ha fatto scuola nei movimenti nazionalisti che stanno prendendo forza sulla scena europea. Quello che è successo con la Brexit, secondo lei, può essere copiato in altri Paesi, come l’Italia?
La democrazia non è un prodotto che si può esportare. È una tradizione, diversa in ogni Paese. Pensiamo a quello che è successo in Italia con il sistema maggioritario: si prevedeva un voto consapevole da parte dei cittadini, ma i cittadini non hanno avuto il tempo di maturare questa consapevolezza. L’Italia resta una democrazia bloccata, ha una sua storia. Certo, i modelli che funzionano possono essere di ispirazione, ma pensate che si possa copiare un sistema che ha una Camera dei Lords e una monarchia, istituzioni che sembrano bizzarre ma funzionano?

Ottimo spunto. Le istituzioni britanniche: sono queste che hanno reso possibile l’azzardo di un voto per la Brexit?
Non parlerei di un azzardo. Il voto ha messo in crisi la situazione costituzionale. In Gran Bretagna stanno vivendo la morte di un Papa: una cosa rarissima ma che succede. Però anche se era un referendum consultivo, i cittadini lo considerano una cosa che lega, che impegna, nessuno si aspetta che il governo faccia come se quel risultato non ci fosse stato. Anche perché l’Unione europea si sta dimostrando un posto non bello in cui stare.

«È straordinario che agli italiani venga periodicamente detto se sono stati promossi o bocciati a Bruxelles o a Berlino. I titoli dei media riferiscono di queste bocciature o promozioni come fossero una cosa normale. Mi stupisce, in questo senso, l’immobilismo dell’Italia: qui non c’è un dibattito vero su come far valere le ragioni degli italiani e far capire alla Germania che non può dettare legge per tutti»

Ne è convinto anche lei?
Risiedo in Italia, e non ho potuto votare. Se fossi stato là, probabilmente avrei votato per rimanere nell’Unione Europea. Ma lo avrei fatto con molte difficoltà. Tanti elettori avranno votato contro l’immigrazione, è vero. Ma parecchi di loro hanno votato per la volontà di riprendere in mano la guida del Paese. Non per volontà di potenza, ma nella convinzione di poter far meglio di adesso. Per questo è interessante vedere quale è stata la reazione delle istituzioni europee al risultato della Brexit: vorrebbero una punizione.

Il primo ministro Theresa May ha però fatto un discorso che sembra indicare una nuova identità per la Gran Bretagna, un ruolo globale e non solo europeo…
Non entro nella propaganda politica. Osservo un’altra cosa. Gli inglesi vanno a scuola studiando la storia più o meno dal 1500 al 1920. Studiano la perdita del primo impero, quello americano, e la conquista del secondo impero, che nel 1870 faceva passare il 90% del commercio mondiale nelle mani inglesi. Sembra assurdo, ma era così. Eppure gli inglesi oggi non sono mossi dalla nostalgia di questo passato, almeno io non l’ho avvertita.

E da che cosa allora?
Guardi, abbiamo visto diventare indipendente l’India, indipendenti gli Stati africani. E non l’abbiamo generalmente considerato un fatto anormale. Ma nel nostro Paese c’è una grande tradizione di commercio, è quella a cui si sta guardando. Ci sono tante persone liberal, della sinistra intellettuale, che guardano esterrefatte all’apparente nazionalismo. Questo nazionalismo, certo, in parte c’è. Ma la Brexit non è stata una mossa suicida. Basta guardare ai titoli dei media in Italia.

Che cosa c’entrano i media italiani?
È straordinario che agli italiani venga periodicamente detto se sono stati promossi o bocciati a Bruxelles o a Berlino. I titoli dei media riferiscono di queste bocciature o promozioni come fossero una cosa normale. Mi stupisce, in questo senso, l’immobilismo dell’Italia: qui non c’è un dibattito vero su come far valere le ragioni degli italiani e far capire alla Germania che non può dettare legge per tutti.

Quindi, rompere è una rivincita anche culturale, oltre che politica.
Una cosa è fare un’Europa unita, perché tutti hanno uno stesso destino. Un’altra cosa è avere soltanto a che fare con qualcuno che comanda, stare lì come gli ultimi della classe ad aspettare che qualcuno ti dia il voto. E poi le dico un’altra cosa.

Prego
È una fortuna che abbiano fatto un referendum che ha lasciato in Gran Bretagna un governo guidato da un partito ragionevole, al posto di aspettare l’esasperazione, che avrebbe magari portato un Nigel Farage al comando. Secondo me è quello che rischia di fare anche l’Italia. Presto o tardi succederà anche qui, che si discuterà della permanenza in Europa. Ma meglio che lo faccia qualcuno con mestiere e serietà, piuttosto che affidarsi a quelli come Beppe Grillo. Gli inglesi rimarranno esattamente quello che sono stati, con picchi di umore in un senso nell’altro. Ma il Paese non è cambiato.

Neanche lo stereotipo dell’Italia?
C’è sempre un sospetto verso l’Italia, non come Paese ma come classe politica. Gli italiani sono ben visti, Londra ne è piena. È la classe politica che viene vista con sospetto. E poi c’è una cosa che gli inglesi non sanno dell’Italia.

Quale?
Non sanno quanto l’Italia va male in questo momento. Non hanno consapevolezza del livello a cui è arrivata la disoccupazione giovanile. Queste sono informazioni che non passano da noi.

Non c’è un opinione pubblica europea?
Noi non conosciamo nulla per esempio della Germania. Ma sono loro che decidono in Europa. Noi sappiamo più dell’America che della Germania e dell’Italia. L’Europa non ha mai fatto comunità, chi parla inglese conosce più della situazione politica americana che di quello che succede all’altra parte della Manica. Non siamo diventati una comunità in cui le notizie corrono da un capo all’altro. L’unico discorso che ci viene fatto è che non si può stare da soli. Nessuno spiega più l’utilità dell’unione politica, se non con questo argomento.

A proposito, l’unione fra Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord invece reggerà?
Bella domanda. Ancora una volta mi tocca parlare di quello che si studia a scuola.

Prego…
A scuola si studia la formazione dell’unione. Nel Settecento, questi Paesi avevano sistemi commerciali molto avanzati rispetto all’Europa. Si guadagnava molto a stare insieme, anche se si era nemici. Qualcuno può pensare che oggi la Scozia stia meglio, ma secondo me un nuovo referendum porterebbe ancora alla sconfitta degli indipendentisti. Tutto il commercio scozzese passa dall’Inghilterra: è difficile mettere un confine.

Insomma, la Brexit è la rivincita della storia.
​Ognuno ha una sua tradizione e fa in modo che i fatti traducano queste sue tradizioni. Bacchettarci è assurdo, perché ce la facciamo anche da soli.

@ilbrontolo

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