Cristian Mungiu: «La nostra società non sta progredendo, sta andando indietro»

Il regista rumeno Cristian Mungiu, vincitore a Cannes nel 2007, al festival "L'immagine e la parola" di Locarno parla del suo ultimo film, "Un padre, una figlia", ritratto di una generazione sconfitta dalla storia e che ora, a 50 anni, si illude di poter salvare almeno i propri figli

Cristian Mungiu è nato nella Romania orientale circa 50 anni fa, a meno di 40 ha vinto il festival di Cannes con il film 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni e appartiene a una classe di registi molto particolare: è uno di quelli che non lasciano nulla al caso e che hanno come unica stella polare, quasi come fosse un’ossessione, l’aderenza alla realtà.

Personaggio tanto discreto da sfiorare quasi la timidezza, ma anche tanto determinato e preciso da studiare a fondo prima di mettersi a scrivere un nuovo film, con il suo ultimo film Baccalaureat, presentato a Cannes, partendo dalla volontà di parlar di se stesso, dalla particolare realtà del suo paese e dalla sua età — i 50 anni, che , dice, sono proprio essere un bel punto di osservazione sulla propria vita — si è ritrovato per le mani un concentrato delle più importanti dinamiche che sta attraversando l’Europa in questo momento

La dinamica sociale dello scontro generazionale tra padri idealisti e sconfitti dalla storia e figli pragmatici che dalla storia si autoescluderebbero volentieri; quella interiore del oscillare tra la volontà di andarsene per il mondo a inseguire il proprio diritto fondamentale di sognare ed essere felici e quella, opposta, di restare, rimboccarsi le maniche e cercare di aggiustare il proprio paese; ma anche, da ultimo, la dinamica antropologica della invincibile battaglia personale per rimanere onesti in un mondo dove il compromesso e la corruzione sono la regola. Insomma, dentro una storia semplice come quella di Baccalaureat — in italiano Un padre e una figlia — ci sono le linee di rottura di un’Europa che negli ultimi vent’anni si è scoperta decisamente fragile.

«Quando ho iniziato a lavorare a questo film non avevo assolutamente chiaro in testa dove sarei arrivato», risponde Mungiu alla richiesta di spiegazioni sulle tematiche affrontate nel suo ultimo film. Ha da poco finito di tenere la sua masterclass a Locarno, nel contesto del festival L’immagine e la parola, ma non è affatto stanco di parlare del suo lavoro.

«Sai», continua quasi sussurrando, come se dovesse confessare un segreto, «è sempre così quando hai finito un film, che ti accorgi anche di capirlo molto meglio, di coglierne alcuni aspetti che, in partenza e durante la realizzazione, non avevi considerato, né messo volontariamente»

Quindi l’opera ha una sua autonomia rispetto alle decisioni dell’autore?
In un certo senso sì. Per me il tema della corruzione e dell’onestà era importante, ma all’inizio lo era di molto più il concetto di compromesso. Questo era quello che volevo approfondire con Baccalaureat. In particolare mi interessava far emergere il compromesso come scelta personale, che puoi evitare o no, ma con cui devi fare i conti.

Come mai distingui così nettamente tra compromesso e corruzione?
Per me è importante sancire la differenza tra compromesso e corruzione perché con il termine corruzione ci riferiamo sempre a una cosa che riguarda gli altri. Non consideriamo mai la corruzione come qualcosa che ci riguarda personalmente, a meno che non parliamo, per l’appunto, di compromessi. In fondo non mettiamo mai in discussione noi stessi, non riflettiamo spesso sul fatto che, con i nostri comportamenti, noi stessi tolleriamo e ogni tanto agevoliamo direttamente la corruzione.

Perché in Europa, nonostante il notevole aumento del benessere, la corruzione è ancora uno dei temi centrali?
Io credo che la nostra società non stia progredendo. Non stiamo andando avanti ed è un problema che riguarda soprattutto l’educazione.

In che senso?
Noi continuiamo a educare i nostri figli nel modo in cui siamo stati educati noi, senza accorgerci che il mondo è cambiato. E poi c’è un altro problema che riguarda l’educazione e che mi interessa molto, ovvero il fatto che non sia una cosa che si insegna soltanto a parole. L’educazione non si spiega, si mostra.

Come in letteratura: show, don’t tell…
Esatto, è il modo in cui ti comporti la maniera più potente per insegnare qualcosa ai tuoi figli, perché oltre a sentir quello che gli raccomandi a parole, loro osservano come agisci, guardano quello che fai e ti imitano. C’è anche questo aspetto nel mio film. Ed è addirittura più importante questo tipo di educazione diretta, perché non sono parole vuote, è la vita vera. Per esempio, puoi dirgli quante volte vuoi ai tuoi figli che è sbagliato mentire, ma prima o poi ti vedranno che lo fai e capiranno che l’educazione che gli stai dando a parole è fatta in parte anche di cazzate.

Qual è la lezione più importante che hai imparato dall’essere genitore?
Che pensare che la propria esperienza possa servire ai propri figli per evitare di fare sbagli nella vita è sbagliato. La cosa più divertente che ti succede quando diventi genitore è sul serio quella di ritrovarti a dire le stesse identiche inutili cose che ti dicevano i tuoi genitori e che, anche nel tuo caso, non funzionavano mai. Eppure non puoi fare a meno di dirgliele, anche se capisci e sai benissimo che i tuoi figli sono persone e cominceranno a crescere solo quando impareranno dai propri stessi errori.

Oltre al rapporto tra padri e figli e al problema della corruzione, In Baccalaureat c’è un altro grosso asse tematico, ovvero la dialettica tra partire e restare, che in questo momento in Europa, soprattutto nell’Europa del Sud, riguarda milioni di giovani…
Sì, effettivamente questo tema è molto attuale in Europa. È legato al nostro stile di vita e al desiderio di essere felici considerato come un diritto, il nostro diritto di perseguire la felicità. Noi pensiamo di avere il diritto ad essere felici, esattamente come sappiamo di avere il diritto di spostarci in un altro paese a vivere. È uno dei valori della nostra società, ed è normale che questa ricerca della felicità sia passata dall’emigrazione, dalla fuga dal proprio paese. Il problema è che però spesso chi parte non si rende conto di associare la felicità a un posto distante che però non esiste.

Cosa significa che non esiste?
Che esiste solo nella loro testa, nella loro immaginazione. È esattamente come credere in una vita migliore in paradiso. Ecco, in questi anni, nella testa di milioni di persone più o meno disperate si è sviluppata l’idea che esista un paradiso anche in terra. Per noi, in Romania, questo paradiso è stato incarnato per anni da paesi europei vicini a noi anche linguisticamente, come l’Italia o la Francia.

C’è ancora questa mitizzazione?
Non proprio. Ora sono passati trent’anni e la gente ha capito che l’Occidente non è un eldorado. Ciò nonostante in molti continuano ad andarsene, a cercare di costruirsi un futuro in posti più organizzati, in paesi dove le cose funzionano. Ma è una dinamica che coinvolge ormai anche molti stati europei, dalla Grecia all’Italia alla Spagna. In ogni caso, per tornare al mio film, è una dinamica molto difficile da affrontare come genitore.

Tra il padre che vuole un futuro in Inghilterra per sua figlia, e lei che invece non ha voglia di andarsene, tu da che parte stai?
Guarda, quando ho fatto il mio primo film ero sicuro che si dovesse restare e cercavo di convincere la mia generazione a rimanere per cambiare le cose, per migliorare la Romania. Sai, il problema è sempre stato che quelli che se ne vanno appartengono quasi sempre alla fascia più colta, preparata e giovane della popolazione. Esattamente quelli che dovrebbero ricostruire la società su nuovi presupposti.

E ora?
Ora, sarà che sono passati 25 anni o che sono diventato un genitore, ma non sarei così fermo su quella posizione. Ora credo che tutti debbano essere liberi di scegliere come meglio credono, ma soprattutto, di scegliere per se stessi. Anche di questo parla Baccalaureat.

Prima dicevi che più che il tema della corruzione della società ti interessa quello della onestà individuale, perché?
Sì, il film infatti non si limita a ritrarre un quadro di corruzione diffusa, ma anche dell’onestà verso se stessi. Avvicinarsi ai cinquantanni per me iniziare ad affrontare quel momento in cui fai i conti con la tua vita, con le cose che avevi sognato di fare e con quelle che poi hai fatto, e rischi di capire che la maggior parte della tua vita si fonda sulla menzogna, prima di tutto a te stesso. Questa fase può essere molto drammatica per qualcuno, perché c’è anche gente talmente abituata a mentire a se stessa, che a un certo punto non riesce più a capire dove sia la verità e dove sia la menzogna. E anche questo fa parte della vita umana, della realtà, ed è per questo che ho voluto cercare di rappresentarlo e di farlo emergere nel mio film. Perché la cosa più difficile da fare, a un certo punto della vita, è vivere con sé stessi.

Quando hai scelto di raccontare la storia di Baccalaureat non avevi paura che fosse troppo strettamente legato alla realtà della Romania?
Come tutti i film, anche per questo sono partito da me, dalla mia esperienza, dalla mia vita. Non credo che si possa raccontare di qualcosa di cui non si sa. Devo dire però che sto notando, portandolo in giro, che le dinamiche che io ho raccontato partendo da me, dalla mia esperienza e dal mio paese, riguardano strettamente tutti noi, soprattutto noi europei.

Per esempio?
Pensa che in Italia, la maggior parte dei giornalisti inizia a farmi le domande presentandosi e dicendo, “sa, sono italiano, quindi capisco molto bene quello che lei racconta nel film”, ma anche in Spagna, in Grecia. E la prima reazione davanti alle difficoltà, anche in questi paesi, non è rimboccarsi le maniche e affrontarle, ma andarsene in posti dove pensiamo si stia meglio e questo, se vent’anni fa era valido sopratutto in Romania, ora vale per molti paesi europei.

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