Qualche tempo fa, avevamo commentato gli ultimi dati dell’Aie sulla produzione libraria italiana sottolineando un dato, sopra agli altri. Si trattava del numero di opere di narrativa stampate in Italia. Un numero che negli ultimi trent’anni è in crescita non esponenziale, di più. Dai 1000 titoli di novità di narrativa del 1980 si è passati ai 18mila titoli. Tutti nuovi. Tutti di narrativa. Tutti, o quasi, non superano le 100 copie vendute, a dimostrazione di come le novità assolute, in Letteratura, non sono un gran business.
Il vero affare, per le case editrici, se proprio vogliamo restare alle generaliste e alla narrativa, sono un altro tipo di libri, un genere particolare al quale non si approda per elezione o per decisione autoriale, ma grazie al lavorio del tempo e dei lettori. Stiamo parlando dei classici, una categoria che in molti hanno provato a descrivere, cercando di capire cosa rende un libro un classico, e perché.
La metà colta dei lettori di questo articolo avranno già iniziato a pensare a quel famoso scritto di Italo Calvino intitolato Perché leggere i classici?, un vero “classico” del pensiero debole degli ultimi trent’anni. Pubblicato postumo nel 1991 in una raccolta eponima, il saggio breve Perché leggere i classici?, nonostante il suo autore sia uno dei più grandi tra gli ultimi classici che la Letteratura italiana ha assunto nei suoi cieli, è di una banalità abbastanza sconcertante per Calvino e ora che più di tre decenni sono passati dalla sua stesura, rivela tutto il carico di banali frasi da maglietta, o da cioccolatini.
La domanda da cui partiva Calvino, infatti, è malposta, o quantomeno ingenua. La vera domanda, quella interessante per davvero, non è tanto il perché continuiamo a leggere alcuni libri dimenticandone altri sulla strada, bensì, piuttosto, perché le case editrici continuano a investire dei soldi sulla pubblicazione e spesso la ritraduzione dei classici, libri già usciti da decenni e che già hanno letto in tantissimi?
In questi giorni lo spunto del ragionamento ce lo concede una bellissima operazione editoriale di Einaudi, da sempre molto attenta al catalogo e alle edizioni dei classici di ogni tempo, tanto da creare, per volontà dello stesso Giulio Einaudi, una delle collane più interessanti — come operazione culturale — del loro intero catalogo. Parlo di Scrittori tradotti da scrittori, lanciata nel 1983, che contiene perle come i Fiori Blu di Raymond Queneau tradotti da Italo Calvino, o Finzioni di Jorge Luis Borges tradotto da Lucentini, o ancora, i Racconti di Pietroburgo di Gogol’ tradotti da Landolfi. Capolavori.
A febbraio, la casa editrice torinese, pur fuori da questa storica collana chiusa nel 2000, ha pubblicato — nella collana Letture — una perla che avrebbe meritato tranquillamente la gloriosa compagnia degli 82 volumi della collana storica. Si tratta de La macchina del tempo di H. G. Wells ritradotto da Michele Mari. Una vera perla. Sia la ritraduzione, concessa a uno degli autori che al fantastico e al fantascientifico ottocentesco è più legato (da un legame praticamente vampiresco), ma anche per l’incredibile freschezza e attualità del libro di Wells, la cui visione bipartita della specie umana all’alba del 802700 è sconcertante per quanto risponde a intuizioni che, alla fine dell’Ottocento, non dovevano essere così facili e comuni.
A parte il valore culturale e il piacere di rileggere un bellissimo libro tradotto da uno dei suoi più grandi fan, nonché una delle migliori penne della letteratura italiana contemporanea, l’operazione in gioco è interessante da inquadrare nella domanda prima accennata del Perché pubblicare ancora i classici? E la risposta è quasi banale. Perché vendono e perché il rapporto tra qualità e prezzo dell’operazione è sempre molto più sicuro, se non più alto, di puntare a qualche giovane scrittore.
Stefania Vitulli, un paio di anni fa, in un bell’articolo pubblicato dal Giornale, aveva preso le misure di questo mercato: i dati che emergevano dalle vendite degli scrittori ormai polvere — era il 2015, e ancora non si era usciti dalla parte più buia della crisi — facevano impallidire i colleghi viventi. Calvino, con 5 titoli tra i top10, ne piazzava 100mila all’anno, Bradbury, soltanto con Fahreneit 451, si accontentava di 30mila copie. Orwell con la sola Fattoria ne vendeva un altro centinaio di migliaia. Per non parlare di longseller fenomenali come Il piccolo principe, che malgrado sia la peggior opera di Saint Exupery, per anni è stata la boa galleggiante di Bompiani. Fino almeno al 2015, anno in cui sono scaduti i 70 anni dalla morte tragica del suo autore, quando i diritti del Piccolo principe sono svaniti dando a tutti la possibilità di ritradurlo e stamparlo. Chissà, sarà un caso che Bompiani sia implosa dando alla luce La Nave di Teseo proprio l’anno in cui il suo maggiore classico esclusivo diventava merce per tutti?