Giuseppe Berta: «Ma quali referendum, la questione settentrionale non esiste più»

Per lo storico e docente della Bocconi non ha più senso parlare di Nord: «Esiste un “modello Italia” che abbraccia il Centro e pezzi di Sud». I referendum autonomisti promossi da Lombardia e Veneto? «Solo una trovata politica»

Lombardia e Veneto potrebbero celebrare entro quest’anno due referendum (consultivi) per chiedere maggiore autonomia regionale. È la bandiera dei due governatori leghisti, Roberto Maroni e Luca Zaia, che insieme agli alleati del centrodestra, ma anche con il sostegno del Movimento 5 Stelle, intendono sfruttare l’articolo 116 della Costituzione per spingere il Governo a trattare la cessione di maggiori materie di competenza. La sfida arriva curiosamente nel momento storico di maggiore debolezza delle istanze federaliste, portate al governo nel 1994 dalla Lega di Umberto Bossi, ma mai approdate ad alcun risultato rivoluzionario. Esiste dunque ancora una questione settentrionale in Italia? «Ormai questo tema ha perso la sua efficacia, non c’è più il Nord che conoscevamo prima», risponde Giuseppe Berta, storico dell’Italia industriale, docente all’università Bocconi di Milano e autore di numerosi studi sul sistema economico del Nord Italia. Secondo Berta, rispetto agli anni Ottanta ora c’è un’area piuttosto omogenea che si spinge nel Centro e costituisce “un modello italiano”, difficile da restringere dentro confini territoriali troppo stretti.

Professore, esiste ancora o no la questione settentrionale?
Diciamo che nei suoi lineamenti ha perso molta effiicacia. In Italia, per quasi un secolo, era stata la questione meridionale a rappresentare una categoria fondamentale del nostro discorso politico. Ma è uscita di scena negli anni Ottanta, per l’intrecciarsi di vari fattori. A quel punto è emersa con più forza una questione settentrionale, che era legata soprattutto alla nascita della “terza Italia” economica. Veniva soprattutto dal Veneto la rivendicazione di una propria autonomia, perché il Veneto riceveva meno del contributo che dava a livello nazionale.

Il Nord conquistava insomma una dignità politica.
Sì, ma poi il federalismo ha dato un pessimo esempio, in questo Paese. Le Regioni non hanno funzionato come ci si aspettava. Non hanno razionalizzato la spesa e non hanno riavvicinato le istituzioni ai cittadini. Di questa stagione, restano in piedi solo le due amministrazioni regionali guidate da uomini della Lega, quella di Maroni in Lombardia e quella di Zaia in Veneto, appunto. E non è un caso che entrambe tendano a differenziarsi dal lepenismo imbracciato da Salvini.

Ma è ancora efficace appellarsi alla specificità del Nord?
Ha un’efficacia solo polemica. Come altrove, in un momento di frammentazione e di scomposizione geopolitica fa presa l’idea di chiudersi dentro casa propria.

«Il federalismo ha dato un pessimo esempio, in questo Paese. Le Regioni non hanno funzionato come ci si aspettava. Non hanno razionalizzato la spesa e non hanno riavvicinato le istituzioni ai cittadini. Di questa stagione, restano in piedi solo Maroni in Lombardia e Zaia in Veneto, appunto. E non è un caso che entrambi tendano a differenziarsi dal lepenismo imbracciato da Salvini»

Che cosa non può funzionare, secondo lei, dopo questi vent’anni in cui il tema del federalismo ha avuto un accesso privilegiato al dibattito pubblico?
Non c’è più il Nord che conoscevamo, almeno dal punto di vista socio-economico. Il Nord-Ovest ha perso le caratteristiche di un tempo, quella delle grandi imprese classiche, e assomiglia sempre di più al Nord-Est. Un aspetto che si accompagna alla progressiva omogeneizzazione fra Nord e Centro Italia. È un sistema che ha come cardine le imprese di media dimensione, quindi né le grandi imprese classiche né le piccole. Questa è la novità. Che però continua a escludere il Sud, tranne in qualche zona.

Fin dove si spinge questo Centro-Nord?
Incorpora l’Emilia, un pezzo della Toscana e una parte delle Marche. È un’area più vasta, che dà origine a un modello che è un modello italiano. Non è un caso che il consolidarsi di questo modello abbia accompagnato il declino del messaggio politico della Lega Nord, che è stato l’unica vera novità politica di fine secolo.

Quindi come leggere, dal suo punto di vista, questi voti referendari vent’anni dopo?
Sono questioni di identità, che non porteranno a niente.

Ma c’è una proposta politica che risponde in via esclusiva alle esigenze di quest’area del Paese?
No, non ce ne sono. Ma il problema in generale è che i partiti non hanno più un legame con il territorio. Il discorso politico interessa ormai solo i professionisti della politica. Restano in piedi quelle associazioni che non si vedono, quelle reti di relazioni sociali che sono nell’ombra, anche grazie ai social. Quello che vedo è che non esiste più uno spazio di opinione pubblica condiviso. Penso che l’ombrello territoriale non offra più riparo. Serve ancora alla politica per altri motivi.

Per esempio?
Per esempio, vediamo che Berlusconi sta usando Zaia contro Salvini. Perché Berlusconi non si fida della ricetta lepenista. E perché Zaia è uno abbordabile, disponibile, attento a non esaltare le differenze. Però penso che non ci siano le condizioni perché lui diventi alla fine il candidato premier del centrodestra: Berlusconi agita il nome di Zaia solo per far vedere che la Lega non ha nomi di carattere nazionale.

A proposito di lepenismo, professore. Ma quest’area di Centro-Nord guadagnerebbe da un’uscita dall’euro?
Uscire dall’euro vuol dire candidarsi al plotone di esecuzione: esci e iniziano a spararti addosso.

@ilbrontolo

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