Siamo il Paese in Europa in cui la percentuale di lavoratori part time è salita di più. Più 9,8% tra il 2002 e il 2015, contro una media europea che vede un incremento del 4%.
A seguire l’Italia Paesi come Austria, Spagna, gli stessi Paesi Bassi che sono la patria eccellenza di questo tipo di contratto, la Germania.
Diciamo subito che, in sé, questa non può essere derubricata come una cattiva notizia. Che aumentino le persone che lavorano part time di per sè è chiaramente positivo. Non solo, a quanto vediamo, non c’è stato un aumento solo in Paesi che hanno sofferto la crisi, ma anche in quelli in cui dopo il 2008 o non vi sono state recessioni o sono state lievi e subito seguite da riprese che hanno più che compensato quei cali del PIL, appunto Germania, Paesi Bassi, Austria, Irlanda.
E infatti c’è una correlazione tra il tasso di occupazione femminile (sono le donne le protagoniste del part time) e proporzione di occupate a metà tempo.
Una correlazione ancora più evidente nella fascia di età tra il 15 e i 24 anni, in cui i Paesi nordici risultano in testa in entrambi gli indicatori, quelli sull’occupazione femminile e sul ricorso al part time.
Viene da dire che, anzi, sarebbe ottima cosa per l’economia incrementare il suo utilizzo, che ora vede l’Italia attorno o sotto la media europea, molto sotto se consideriamo i lavoratori più anziani, tra i 55 e i 64 anni, in cui il ricorso al part time è solo del 13,7% nel nostro Paese.
Mentre siamo in linea nelle altre fasce d’età con il dato UE, leggermente al di sopra tra i 25 e i 54 anni, laddove c’è stato il maggiore aumento in questi anni.
Che tra i lavoratori più in là con gli anni in pochi ricorrano al part time non stupisce se pensiamo che si tratta del segmento con meno donne occupate (per quanto in rapida crescita), e qui veniamo a uno dei punti fondamentali che fanno apparire meno rosee le notizie relative al maggiore utilizzo di questi contratti: sono ancora troppo relegati all’universo femminile.
Infatti se prendiamo il rapporto tra la proporzione di utilizzo del part time tra le donne e tra gli uomini l’Italia risulta ben al di sopra della media europea, con le prime che superano i secondi del 305%, il 32,4% contro l’8%!! La media europea è un +260,7%.
Questa differenza eccessiva sarebbe giustificabile con una massiccia partecipazione femminile al lavoro, come in Germania o Austria, che infatti ci superano, dove per far posto a tante lavoratrici, molte delle quali madri, si ricorre al part time per le donne in modo più massiccio, ma in un Paese come il nostro in cui l’occupazione femminile è solo del 48% ci si aspetterebbe che accada come con il gender gap negli stipendi, che da noi è tra i più bassi, proprio a causa del fatto che le poche donne al lavoro hanno occupazioni relativamente più remunerative che altrove, mentre coloro che sarebbero impiegate in settori più marginali spesso non lavorano proprio.
Non è così con il part time: nonostante le lavoratrici siano molte meno dei lavoratori, come nei Paesi dell’Est o mediterranei in fondo alla classifica qui sopra, a differenza che in questi, però, ricorrono a una riduzione di orario in modo più massiccio.
La differenza tra uomo e donna rispetto al 2002 è calata, sì, ma meno che nei principali Paesi europei. Allora solo nei Paesi Bassi era inferiore che in Italia, oggi praticamente ovunque tranne che in Germania. E anzi a metà anni 2000 avevamo raggiunto record continentali, con un +511,6% di ricorso al part time da parte delle donne rispetto agli uomini.
A dimostrazione del suo sfruttamento come sfogo per una riduzione del costo del lavoro in settori marginali o con lavoratori più deboli vi sono poi due altri dati.
Uno è il grande utilizzo dei lavoratori immigrati, tra cui infatti siamo sopra la media europea (30,7% contro il 28,6%).
La differenza tra la quota di dipendenti part time tra tutti e tra immigrati in Italia è maggiore del 12%, mentre di fatto non c’è nei Paesi Bassi, è minore del 7% in Germania, sul 3% nel Regno Unito, del 9% nella UE in generale.
Un altro è il grande e crescente numero di lavoratori che scelgono il part time perchè costretti.
La crisi economica ha avuto un enorme impatto su questo dato. L’Italia, come la Spagna, ha visto di fatto un raddoppio della quota di part time involontario. Si è passati dal 33,3% al 65,4% tra 2003 e 2015.
A differenza dell’Italia in Spagna perlomeno però vi è una maggiore uguaglianza tra uomini e donne, tra locali ed extracomunitari, nel ricorso a questo contratto..
Nel nostro Paese pare essere invece lo strumento da usare laddove si ha bisogno di tagliare dei costi indesiderati, spesso costringendo al suo utilizzo invece che proponendolo come un vantaggio per il lavoratore.
D’altronde alla crescita del part time in questi anni non è corrisposto un aumento dell’occupazione, neanche di quella femminile.
Se è vero che può essere un ammortizzatore e un compromesso per evitare la perdita di posti di lavoro, e non possiamo compiere l’errore di augurarci un minore ricorso a questi contratti a tempo ridotto come si fa in modo miope per i voucher, tuttavia potremo realmente festeggiare solo quando vedremo anche le statistiche sul tasso d’occupazione avere dei decolli simili, magari proprio grazie al part time.