All’inizio era sembrato persino divertente: arrivarono questi della società civile e il loro linguaggio così fuori dagli schemi del politichese, così sincero, così pane-al-pane fu una ventata di aria fresca per gli elettorati abituati alle circonlocuzioni di Arnaldo Forlani o alla caustica irrilevanza delle battute di Giulio Andreotti. Oggi, dopo l’ultima gaffe del ministro Giuliano Poletti, una riflessione comincia a farsi strada, ed è più larga della semplice constatazione della tendenza a straparlare di Tizio o Caio. Quella riflessione riguarda la capacità della meritoria società civile, che ha occupato ormai i gangli vitali del potere legislativo ed esecutivo, di “sintonizzarsi” con la polis, di capire la differenza – di contenuti, ma anche di linguaggio – che c’è tra il parlare ai propri pari in un’aula universitaria, un’assemblea Coop o un Consiglio d’amministrazione e il discutere “da ministro” con i propri amministrati.
La battuta di Poletti sull’importanza delle relazioni nella ricerca di lavoro, come quelle più antiche di Elsa Fornero o di Michel Martone sui disoccupati o sui laureati tardivi, avrebbero suscitato distratti commenti nel mondo dove i tre sono nati e cresciuti, ma suonano come una provocazione nello spazio pubblico, in bocca a persone che decidono dei nostri destini collettivi. E il fatto che si ripetano nel tempo, e che ogni volta lo scandalo susciti lo stupore attonito dei protagonisti – «Ma cosa avrò mai detto? Lo sanno tutti che è così» – fa riflettere su un dato che diamo per scontato, ma forse non lo è: la superiorità dei non-politici sui professionisti della politica, la capacità dei “tecnici” di reggere ruoli di decisione e di rappresentanza in spazi diversi e più complessi da quelli nei quali si sono formati.
Cose da cabaret: Guido Bertolaso che dice «Io e Clinton abbiamo un problema in comune, si chiama Monica» e costringe il governo a scusarsi con gli Usa. Cose tragiche: Pietro Lunardi che spiega come «con la mafia bisogna conviverci e i problemi della criminalità ognuno se li risolve come vuole».
Cose ridicole: Mariastella Gelmini che elogia il tunnel dei neutrini del Cern pensando sia uno scavoIl mito della società civile è uno dei fondamenti della retorica anti-politica. Nasce con Silvio Berlusconi e dopo vent’anni, è diventato quintessenziale con l’affermazione dell’Uno Vale Uno di marca grillina. Magari a qualcuno sembrerà superficiale giudicarlo attraverso la catena di gaffe prodotte dai suoi leader, ma quegli scivoloni assomigliano molto al famoso lapsus freudiano, il patatrac sulla buccia dell’inconscio che ne rivela la vera natura. E in questa “natura” c’è l’idea che un ministero, o comunque un ruolo di responsabilità politica, siano una specie di super-presidenza del Rotary, o del Circolo Aniene, o del Meetup, e la si occupi esercitando il generico opinionismo associato a questi incarichi: qualche battuta, qualche predica agli associati – «Non fate gli schizzinosi», «Cercatevi amicizie anziché spedire curriculum», «Fidatevi di me» – e magari una barzelletta per scaldare gli animi (Berlusconi in questo fu maestro) o un’invettiva contro i nemici per arroventarli.
La galleria è infinita. Cose da cabaret: Guido Bertolaso che dice «Io e Clinton abbiamo un problema in comune, si chiama Monica» e costringe il governo a scusarsi con gli Usa. Cose tragiche: Pietro Lunardi che spiega come «con la mafia bisogna conviverci e i problemi della criminalità ognuno se li risolve come vuole».
Cose ridicole: Mariastella Gelmini che elogia il tunnel dei neutrini del Cern pensando sia uno scavo. Poi, ovviamente, la lunga catena di disguidi lessicali dei “tecnici” di Mario Monti, solitamente su bersagli giovani (bamboccioni e dintorni). E infine questo ministro Made in Coop, abituato – immaginiamo – a platee di adulti con molto pelo sullo stomaco, del tutto inconsapevole della parossistica sensibilità degli italiani ogni volta che si pronuncia la parola “lavoro”.È impossibile immaginare una qualunque di queste frasi in bocca ai “professionisti della politica”. Persino il terrificante Vincenzo De Luca si esercita in scempiaggini sugli avversari, ma mai si sognerebbe di dar lezioni di vita a giovani, anziani, disoccupati, o qualsiasi altra categoria del disagio perché, nella politica professionistica, a differenza di quel che se ne pensa, c’è in genere un qualche senso del ruolo – che è stato “sudato” attraverso infiniti percorsi di confronto, mediazione, ascolto, e non vinto alla lotteria degli esterni di lusso – oltreché la consapevolezza del proprio privilegio.
E si sa che un privilegiato in cattedra, col ditino alzato, in questi tempi di crisi, rischia quantomeno i pomodori.