Corea del Nord, ecco perché il “conflitto a spirale” con gli Usa è una possibilità concreta

Il rischio che scoppi una nuova guerra fra gli Stati Uniti e la Corea del Nord è ora più alto che in tutto il recente passato. E può espandersi a livello mondiale

Il rischio che scoppi una nuova guerra fra gli Stati Uniti e la Corea del Nord è ora più alto che in tutto il recente passato. Il Pentagono ha sempre dovuto considerare l’esplosione di una seconda guerra coreana come una possibilità concreta. Più esattamente, dovremmo parlare del riavvio della prima guerra coreana, visto che non è mai stato firmato un trattato di pace alla fine delle ostilità ma solo l’armistizio di Panmunjeom; siglato il 27 luglio del 1953 su un tavolo posto a cavallo della Linea di Demarcazione.

Anzi, solo quattro anni dopo, lo stesso armistizio subì l’abrogazione unilaterale del punto 13d da parte degli Stati Uniti. Quell’articolo prevedeva il divieto di introdurre nuove armi nell’intero territorio coreano se non per rimpiazzare quelle divenute inefficienti. L’America decise, infatti, che il Nord per primo non rispettava il punto 13d e spedì a Seoul armi nucleari tattiche montate su missili balistici e su proiettili per obici da 280mm. Peraltro, anche la Corea del Nord ha denunciato la violazione dell’armistizio nel 1994, 1996, 2003, 2006, 2009 e, infine, nel 2013, dichiarandolo nullo per la presenza di truppe americane in Corea del Sud.

Ma ora, in una situazione così incandescente, le strategie di vittoria sviluppate dalle amministrazioni Trump e Kim Yong Un – quell’insieme di teorie che si presume possano guidare azioni di pressione sull’avversario mantenendo al contempo sotto controllo i rischi di escalation eccessive – ora rendono l’eventualità di un nuovo conflitto non solo plausibile, ma addirittura probabile.

Dichiarazioni bellicose e toni guasconi hanno caratterizzato le relazioni fra i due paesi per più di 60 anni

Dichiarazioni bellicose e toni guasconi hanno caratterizzato le relazioni fra i due paesi per più di 60 anni. Solo pochi giorni fa il vicepresidente Mike Pence, visitando il lato meridionale della Zona Demilitarizzata, ha collegato esplicitamente gli attacchi in Siria e in Afghanistan ad una dimostrazione della forza con cui l’America vuole affrontare anche il confronto con la Corea del Nord sottoponendola alla “massima pressione”. A corollario, altri membri dell’amministrazione hanno confermato che si stanno studiando attacchi preventivi contro il Nord. Kim Yong Un non ha voluto essere da meno ordinando il test dell’ennesimo missile balistico, questa volta lanciato da un sottomarino e anche stavolta miseramente fallito. Ai fatti sono seguite … le parole, sotto forma di numerose dichiarazioni che una guerra termonucleare può scoppiare in qualsiasi momento e promesse che le città americane verranno spianate da una pioggia di bombe atomiche.

Sembrerebbe che tutto proceda come al solito: da anni il Nord minaccia guerra, la TV di stato ogni giorno fa vedere almeno un fungo atomico. D’altra parte, l’invio di flotte di navi e di bombardieri per esercitazioni congiunte con il Sud a pochi chilometri dalle coste del Nord è diventato un appuntamento di routine per i militari americani.

Ma il problema non risiede nelle ormai usualmente bellicose dinamiche di comunicazione ma in quello che oggi – a differenza del passato – vi si nasconde sotto. Ora, infatti, l’amministrazione americana pare avere adottato una strategia di vittoria sostanzialmente speculare a quella dell’ultimo rampollo della dinastia Kim. E le due strategie sono, ovviamente, profondamente incompatibili fra di loro.

In Siria, in Afghanistan e con le ripetute manovre al largo della Corea, gli americani mostrano che ora per mostrare i muscoli non si ricorre alla combinazione di diplomazia, freni commerciali, sanzioni e dimostrazioni di forza militare ma solo a queste ultime. Queste provocazioni rischiano non di intimidire ma di forzare un avversario notoriamente squilibrato ad azioni altrettanto aggressive, di fatto vanificando la teoria stessa di deterrenza. Anziché ricordare che si dispone di armi e che in passato si è dimostrato di saperle usare, ora le si agitano direttamente davanti agli occhi del nemico. Inoltre, il fatto stesso di portarle davanti all’avversario implica la necessità di un dispiegamento di forze e di supporti logistici necessari per sostenere la minaccia stessa. In questo caso è la squadra navale guidata dalla portaerei Carl Vinson che – in modo un po’ tortuoso – sta trovando la strada verso le acque coreane.
Oggi si sta identificando la deterrenza con l’esclusivo uso di azioni muscolari. Azioni che comportano non solo credibili minacce, ma il dispiegamento concreto di uomini e mezzi. Con tutti i rischi che questo comporta.

Queste provocazioni rischiano non di intimidire ma di forzare un avversario notoriamente squilibrato ad azioni altrettanto aggressive, di fatto vanificando la teoria stessa di deterrenza

Ma osserviamo due principali differenze rispetto alla politica di deterrenza americana delle precedenti amministrazioni.

Prima di tutto, in passato sono stati evitati guai seri perché gli Stati Uniti hanno puntualmente deciso di non accettare le frequenti provocazioni e sparate propagandistiche nordcoreane. Questi ultimi si sono rivelati pronti ad azioni di rappresaglia e di inasprimento degli scontri e sono stati bloccati solo dal fatto che le loro provocazioni non avevano suscitato risposte militari tali da giustificare le ritorsioni già pianificate.

Ma il fatto più grave è che ora l’amministrazione USA lascia trapelare che il Pentagono è pronto a lanciare attacchi preventivi in risposta a non meglio definite provocazioni nordcoreane. Includendo fra queste anche azioni non direttamente violente come il test di missili o di bombe nucleari fatte esplodere nel sottosuolo. Questo è un cambio di paradigma: dal 1953 ad oggi gli Stati uniti non hanno mai minacciato azioni armate unilaterali. Rappresaglie mille volte, ma mai attacchi preventivi.
La convinzione del Pentagono che la deterrenza ora risieda non più nelle azioni commerciali e diplomatiche, ma nella dimostrazione di forza muscolare, si collega alla convinzione americana che qualsiasi cosa succeda, la colpa sarà di Kim Jong Un. Si dà per scontato che, se ci sarà un errore di calcolo nell’interpretare un segnale aggressivo dell’avversario prendendolo per un vero attacco, questo sarà colpa dei nordcoreani e non degli americani.
Questa strategia di vittoria non è, in sé, un modo per fare scoppiare una guerra. Ci sono contesti in cui la dimostrazione di potenza militare di una nazione può convincere avversari che prima dubitavano della sua assertività o di quella dei suoi alleati, oppure dove dimostrazioni militari sono una abitudine consolidata e non possono venire interpretate come atti di guerra, o infine dove gli avversari mancano del tutto della capacità bellica necessaria per azioni di rappresaglia.
Ma nessuno dei tre casi si applica allo scontro fra Stati Uniti e Corea del Nord: la strategia di vittoria di Kim è sostanzialmente identica a quella di Trump, e non gli manca certo la capacità di combinare qualche grosso guaio.

La Corea del Nord è lo Stato più militarizzato al mondo; e in più può contare su otto milioni di riservisti

Un documento sovietico del 1969 recentemente desecretato dimostra che per PyongYang “la forza militare ha un valore politico, l’escalation è uno strumento affidabile per la de-escalation.” E ancora: “Le provocazioni aiutano spaventare l’aggressività americana e per mantenere una deterrenza credibile è fondamentale rispondere con rappresaglie a ogni provocazione”. Studi più recenti dimostrano che il Nord mantiene anche oggi questa stessa strategia di vittoria.
Si esclude che Kim possa minacciare direttamente il territorio continentale degli Stati Uniti, ma dispone di materiale fissile per almeno 10-15 bombe atomiche. E’ possibile che sia in grado anche di fare scoppiare ordigni a fusione di Idrogeno.

Non si sa se sia già in grado di costruire non solo ordigni ma vere e proprie testate nucleari ma sappiamo con certezza che dispone di un migliaio di missili a medio e lungo raggio. Inoltre, non possiamo dimenticare che la Corea del Nord padroneggia le molto più semplici tecnologie per la guerra chimica e potrebbe con relativa facilità montare bombole di gas nervini sulle testate missilistiche.

Kim è certamente è in grado di devastare la Corea del Sud lanciando missili, bombardieri e anche truppe. Controlla una delle forze armate più numerose al mondo forte di un milione di uomini. Il Nord è lo Stato più militarizzato al mondo; e in più può contare su otto milioni di riservisti.

I missili del Nord possono raggiungere i 10 milioni di abitanti di Seoul – una città con una densità abitativa di più di sedicimila abitanti per km2 – ma possono mettere in pericolo gli oltre 25 milioni di sudcoreani (metà della popolazione totale) che vivono entro la tangenza operativa delle testate a corto e medio raggio. Possono arrivare a colpire anche il territorio giapponese o le basi di Guam e Okinawa che gli americani considerano territorio USA al 100%.
In tutti i casi, una azione militare nordcoreana provocherà una inevitabile reazione da parte degli USA e metterà in imbarazzo la Cina, che dovrà scegliere se tagliare gli ormeggi, magari in cambio di libertà di commercio e mano libera nel Mare Cinese Meridionale, o difendere il suo più scomodo alleato portando il conflitto a livello planetario.
In Corea del Nord si è ora creato uno scontro fra strategie opposte che renderà difficile evitare quello che gli strateghi militari definiscono come il modello di conflitto a spirale. Uno scenario in cui un’azione punitiva con lo scopo di intimidire un avversario bellicoso innesca invece la rappresaglia e un atteggiamento più aggressivo che deve essere punito in modo più deciso provocando, a sua volta, una più dura rappresaglia… Fino alla guerra totale.

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