Sono stati al centro del dibattito allo scorso Salone del Risparmio di Milano e, secondo i primi dati del ministero dell’Economia e Finanze, stanno andando molto meglio del previsto: un miliardo di euro sottoscritto in neanche quattro mesi contro una stima di 15 miliardi in 5 anni. Stiamo parlando dei Pir, o Piani individuali di risparmio, introdotti nel sistema finanziario italiano dalla legge di Bilancio 2017. In soldoni sono dei contenitori nei quali le persone fisiche possono investire, nel rispetto di determinate condizioni, in strumenti finanziari e liquidità beneficiando di vantaggi fiscali. Le condizioni sono che almeno il 70% vada a finanziarie aziende italiane, con azioni e obbligazioni. Di questo 70%, il 30% (quindi il 21% del totale) deve essere indirizzato verso le piccole e medie imprese. «Una rivoluzione per il sistema di finanziamento delle imprese», la definisce Giordano Martinelli, vicepresidente di AcomeA, società di gestione del risparmio che ha già lanciato un suo Pir e si appresta a mettere sul mercato un secondo. Linkiesta lo ha sentito per una prima valutazione sulla risposta del mercato a questi strumenti.
Cominciamo dall’inizio. Perché i Pir sono una novità e perché hanno concentrato l’attenzione in un evento dedicato alla finanza come il Salone del Risparmio?
Per varie ragioni. Intanto perché finalmente anche in Italia c’è una normativa che va a toccare la leva delle tasse. È una delle leve più importanti quando si investe. E poi, direi soprattutto, perché finalmente c’è la possibilità di andare a finanziare in maniera diretta l’economia reale del nostro Paese. Uno dei limiti degli ultimi 50 anni della storia italiana è stato l’accesso al capitale, che è la base del capitalismo. Questa normativa va quindi in una direzione corretta, quella di aiutare gli imprenditori ma anche i risparmiatori.
Ci faccia capire. Dove sono i risparmi per gli investitori?
Prima della normativa Pir, se si investiva in azioni o obbligazioni di aziende , che queste fossero italiane o meno, si aveva una tassazione sulla plusvalenza pari al 26 per cento. Per contro, se si investiva in titoli di Stato, la tassazione era ed è al 12,5 per cento. L’incentivo stava quindi tutto dalla parte dei titoli di Stato. Ora, se si detiene un PIR per almeno cinque anni la tassazioneper azioni e obbligazioni societarie è pari a zero.
Come sono stati recepiti dagli investitori questi strumenti?
Le reazioni finora sono arrivate soprattutto da parte di chi vende questi strumenti, e sono molto positive. Per avere il feedback degli investitori bisogna aspettare un po’ di tempo. L’importante sarà ricordarsi di non guardare solo al risultato di breve termine. In Italia abbiamo una cultura, sugli investimenti ma non solo, che premia solo il breve termine. Direi quindi che la normativa sui Pir in sé ha tutti gli elementi per poter fare scuola.
Perché?
Perché c’è un incentivo a tenere gli investimenti per un periodo medio-lungo. Chiunque di noi abbia messo in piedi un’attività imprenditoriale, dal bar alla salumeria fino a un’azienda che manda missili sulla Luna, sa che fare azienda non prevede di ritirare i soldi dopo soli sei mesi o un anno. Ma quando le persone investono non nella propria, ma in imprese diverse, come quando investono in Borsa ad esempio, purtroppo sono focalizzate sul brevissimo termine, e passa il concetto sbagliato di dovere trovarme delle opportunità ogni anno.
I benefici fiscali dei PIR stimolano invece un comportamento corretto verso gli investimenti.
«Finalmente c’è la possibilità di andare a finanziare in maniera diretta l’economia reale del nostro Paese. Uno dei limiti degli ultimi 50 anni della storia italiana è stato l’accesso al capitale, che è la base del capitalismo»
Occorre fare un passo indietro. Ci spiega come funziona il meccanismo, dal punto di vista di un risparmiatore?
Ogni risparmiatore può sottoscrivere un singolo Pir fino ad un massimo di 150.000 euro. Ogni anno ha un limite di investimento di 30mila euro. Per ottenere i benefici fiscali ogni investimento va detenuto per 5 anni. Ci sono però due precisazioni importanti da fare.
Prego.
La prima è che alla scadenza dei cinque anni non è detto che si debba vendere. Anzi, più passa il tempo più si “capitalizza” sul proprio investimento: mantenere investite le eventuali plusvalenze consente di avere investito un patrimonio più elevato e potenzialmente guadagnare ancora di più. Se non si ha necessità immediata di soldi, per esempio per comprare un’auto o una casa, non ha molto senso disinvestire.
La seconda?
Che quello dei cinque anni non è un vincolo. Se si vende prima dei cinque anni quello che succede è che viene tassato come qualunque altro fondo. Per questo definirei i Pir come un’opportunità che non costa niente, che non ha senso non sfruttare, per gli anglosassoni il cosiddetto “no brain”. .
Era una misura attesa. Non ci sono quindi motivi di delusione?
Assolutamente no, non ci sono aspetti deludenti. Si possono discutere i limiti, ma vanno tutti nella direzione giusta. Deve passare il concetto che questi soldi servono agli imprenditori italiani per sviluppare il proprio business e vanno in una maniera che più diretta sarebbe impossibile. Se vado direttamente a finanziare con l’equity o le obbligazioni un’azienda, tolgo gli intermediari. E i fondi di investimento non sono degli intermediari, sono dei gestori che mandano i soldi direttamente nelle imprese.
«Quella dei Pir è un’opportunità che può diventare alternativa ai fondi pensione. Se si tengono nei Pir per 20 o 30 anni, l’effetto sul capitale della mancata tassazione diventa estremamente importante»
L’obiezione è che il rischio legato ai Pir, proprio perché finanziano le piccole imprese, sia eccessivo per chi non abbia una cultura finanziaria.
La risposta va cercata nella composizione dei Pir. Non sono investimenti al 100% in piccole e medie imprese. La norma preve che il 70% delle attività siano investite in aziende italiane o straniere con una stabile organizzazione in Italia, con azioni oppure con obbligazioni, che come noto sono relativamente più sicure. Ma di questo 70%, solo il 30% deve andare in aziende medie o medio-piccole. È quindi il 21% delle attività totali. Il restante 70% di questo 70% (quindi il 49% del totale) può essere investito in titoli che stanno nell’indice Ftse, quindi in aziende medio-grandi. L’altro 30% del portafoglio si può investire dove si vuole, in qualunque mercato. Noi avremo un fondo flessibile che avrà investimenti anche all’estero. E un secondo fondo che invece investirà tutto su aziende italiane.
Quindi qual è il messaggio da dare ai risparmiatori?
Che come sempre serve la diversificazione. Se avessi 30mila euro da investire, non metterei tutto su un Pir, ma la metà. L’altro messaggio è che quella dei Pir è un’opportunità che può diventare complementare/alternativa ai fondi pensione.
Perché?
Con un fondo pensione oggi si pagano tasse quando si realizza una plusvalenza (dopo il 15esimo anno ci sono delle agevolazioni, ndr). Inoltre, va precisato, fino a 5.164 euro all’anno i versamenti sono deducibili. Oltre quella cifra vale la pena di investire in un Pir. Se si mantiene un Pir per 20 o 30 anni, l’effetto sul capitale della mancata tassazione diventa estremamente importante.
«Ci sono alcune società che hanno alzato le commissioni di gestione sui Pir, già esistenti o di nuova generazione, approfittando delle agevolazioni fiscali. In poche parole cercano di fare i furbi e di guadagnare anche loro un pezzo dell’agevolazione fiscale»
È realistica la cifra di raccolta di 16 miliardi prevista da Assogestioni, in cinque anni?
Speriamo, ma sembra realistica.
C’è poi il tema dell’esenzione da un’eventuale tassa di successione. Questo cambia il profilo dei sottoscrittori?
Certamente. Diventa uno strumento che non è rivolto solo a un ragazzo di 30 anni che ha un orizzonte temporale decisamente lungo. Potrebbe essere sottoscritto anche da una persona di 75 anni proprio nella logica di tramandarlo ai figli. C’è poi un altro aspetto: se sfortunatamente il sottoscrittore muore prima dei cinque anni di maturazione dell’investimento in un Pir, anche il capital gain che si ricava è esente da tasse.
Tutto bene, quindi, o ci sono dei lati oscuri da considerare?
Ci sono alcune società che hanno alzato le commissioni di gestione sui Pir, già esistenti o di nuova generazione, approfittando delle agevolazioni fiscali. In poche parole cercano di fare i furbi e di guadagnare anche loro un pezzo dell’agevolazione fiscale.