La ricetta che ha fatto per trent’anni di David Letterman il David Letterman è semplice quanto efficace ed emerge molto bene dall’attacco di un bel pezzo dedicato al comico americano da Francesco Pacifico, un pezzo che uscì nel dicembre del ’14. Mancava ancora qualche mese prima che David Letterman facesse la sua ultima apparizione televisiva alla sua scrivania marrone dietro la quale per oltre vent’anni, nel ruolo di se stesso, fece compagnia all’America con il suo Late Show, Francesco Pacifico iniziò con una considerazione molto interessante, soprattutto perché non parlava direttamente di Letterman, ma di noi, il suo pubblico.
A definirci, secondo Pacifico, è il desiderio di risolvere una contraddizione, o forse, meglio, un’ipocrisia, che è poi quella di fondo del nostro mondo piccolo borghese: il godere dell’intrattenimento pop, ovvero l’entrare per un attimo nel mondo di plastica dei VIP, e, nello stesso tempo, il sospendere l’incredulità di fronte ad esso, attivare «quell’ironia che ci dia l’idea che in fondo non crediamo allo star system». Ecco, Letterman era questa cosa qui.
Insomma, un po’ come andare a vedere una mostra di un grande artista contemporaneo direttamente al vernissage, dimostrando familiarità con l’artista, dandogli pacche sulle spalle, potendosi pure permettere di scherzare bonariamente su quanto siano simili le sue opere agli scarabocchi del proprio figlioletto di tre anni. Qualcosa tra il dandy, il radical chic e il paraculo.
Ora che sono passati due anni dal suo addio, la comfort zone in cui Letterman si muoveva a suo agio, ammiccando alle star e, nello stesso tempo, togliendole dal loro piedistallo e, non di rado, arrivando a metterle in ridicolo, non esiste più. Come una scenografia di un film western abbandonata dalla troupe dopo le riprese, di quel mondo è avanzata solo qualche facciata di cartone, giusto il saloon e la chiesa.
Letterman è stato il simbolo di un atteggiamento verso il mondo che ha finito la sua parabola imbattuto, ma che non ha lasciato molti eredi. È stato il simbolo del giullare che, a furia di scherzare sul potere, si convince che, grazie alla propria brillantezza, al proprio ingegno e alla propria intelligenza, può liberare il mostro e portarlo al guinzaglio fuori dallo zoo. Non è un caso che, negli anni di conduzione del Late Show, Letterman ha avuto come ospite più presente Donald Trump, invitato per ben 21 volte.
In una recente intervista rilasciata a Vulture, Letterman accenna a Trump. Si vede che non ne vuole parlare molto, quindi si lascia andare a qualche battuta. Eppure, in quel suo discorso ironico, Letterman identifica perfettamente il proprio potere, che è poi quello che ci manca ora: «I’ve known the guy since the ’80s. I was one of a few people who had routinely interviewed him. I’m not blinded by the white-hot light of “president-elect». Il coraggio della familiarità.
Ora, due anni dopo il doloroso addio alla televisione, se pensiamo a David Letterman lo immaginiamo in una foto che ormai è incisa a fuoco nella nostra memoria. Risale a qualche mese fa e ha scioccato parecchia gente, perché, senza trucco e parrucco, pare molto più vecchio.
Nonostante lo invecchi particolarmente, la foto rimane bellissima e iconica: è un primo piano. Letterman corre. Ha la barba lunga, un po’ da hipster, una maglietta grigia di una squadra universitaria di pallavolo, e sul capo, molto più pelato del solito e inondato di sudore, porta delle cuffie gialle, a mo’ di corona di alloro o di aureola. Lo sguardo, leggermente affaticato, è di quelli tipici della fatica, puntato al chilometro, mentre il sorriso è il suo, quel solito sorriso sornione e sicuro di sé, brillante, quello che per anni ha usato con l’intero canone della cultura pop mondiale, ci ha conquistato attrici, perculato finte starlette, intervistato politici. Ha conquistato la nostra simpatia con quel sorriso e quell’espressione, ma ora un po’ ci sta quasi sulle palle, come il bambino che se ne va dal parchetto portandosi via il pallone. Ma la verità è solo che lo invidiamo. Perché in quello sguardo al chilometro, in quelle espressioni di fatica e in quel sorriso c’è qualcosa che assomiglia a quel che tutti cerchiamo: la felicità.