TaccolaLa produttività cala ancora: la ricetta si chiama concorrenza, ma il Parlamento dorme

Nel 2016 è scesa ancora la produttività del lavoro in Italia. Una situazione di stallo che dura da 20 anni e che si potrebbe sbloccare con più investimenti in tecnologia e con più concorrenza. Il Ddl che prevede le liberalizzazioni, tuttavia, è congelato in Parlamento

Se parliamo di produttività del lavoro, l’Italia è tornata al 2010, o quasi. Per il secondo anno consecutivo assistiamo a una discesa di questo indicatore. Nel 2015 era diminuita dello 0,3%, nel 2016 il calo è stato addirittura superiore all’1 per cento. Così, l’indice Istat che ha come anno base il 2010 (cioè assegna a quell’anno un valore 100), ci dice che lo scorso anno siamo ridiscesi a 100,4. Perché è un dato importante e così negativo? Perché se la produttività si ferma, si ferma tutto il resto. Scrive la “Relazione per paese relativa all’Italia 2017” della Commissione europea, redatta lo scorso febbraio: «Il persistere di bassi livelli di crescita della produttività continua a essere la prima fonte degli squilibri macroeconomici dell’Italia poiché rallenta il ritmo della riduzione del debito e fiacca la competitività esterna». Non solo: «La debole dinamica della produttività nuoce alla competitività e frena la crescita del Pil, il che incide sulla dinamica del rapporto debito pubblico/Pil», continua lo stesso documento. Poca produttività, bloccando la crescita, blocca alla lunga anche i salari. È quindi un male per tutti.

Il problema, per noi, è che non si tratta di una condizione passeggera, ma di una malattia cronica. In Italia la crescita della produttività del lavoro è stata fiacca per quasi 20 anni: crescita media annua di un anemico 0,3 per cento. Impietoso il confronto con la crescita media annua di Germania (+1,5%), Francia (+1,6%) e Regno Unito (+1,5%) e pure, in misura minore, della Spagna (+0,6%).

A cosa è dovuto questo impantanamento? A cause note: «annose carenze del funzionamento dei mercati del lavoro, dei capitali e del prodotto, a cui si aggiungono le inefficienze della pubblica amministrazione e del sistema giudiziario». Come ha ricordato qualche settimana fa Ferruccio de Bortoli sul supplemento economico del Corriere della Sera, la pigrizia non c’entra nulla. C’entra un settore pubblico in cui gli incentivi monetari per aumentare la produttività hanno portata marginale, per usare un eufemismo. E dove, come ha ricordato l’ex direttore del Corriere, «l’ultimo contratto siglato a poche ore dal referendum del 4 dicembre ha riconosciuto 85 euro di aumento ai dipendenti pubblici senza una contropartita sulla produttività».

C’entrano poi le corporazioni che regnano nel Paese. Se guardiamo gli indici Istat, vediamo che la parte delle imprese in cui la produttività scende è quella relativa ai servizi. E tra i servizi la produttività scende soprattutto tra le attività professionali, scientifiche e tecniche (l’indice scende a quota 90, dieci punti in meno rispetto al 2010). Il dettaglio delle categorie di professionisti si ferma al 2014 e qui troviamo, con indice pari a 89, che a tirare verso il basso la media ci sono proprio avvocati, commercialisti, architetti, ingegneri: le professioni regolamentate. Quelle delle storiche battaglie contro l’abolizione delle tariffe minime e la pubblicità “lesiva della dignità”, per capirsi. La produttività del lavoro risulta più bassa solo per il settore editoriale. Il manifatturiero vede invece incrementi nella produttività del lavoro (indice pari a 107), così come le attività agricole (105,8). Ma tra le piccole imprese, come prevedibile, è minore. «La produttività delle microimprese equivale solo all’80% della media Ue corrispondente e, come in altri Paesi, è inferiore a quella delle grandi imprese», nota la Relazione. Nei dati si sente anche la distanza siderale tra Centro-Nord e Sud, sperati da 23 punti percentuali di produttività del lavoro.

In Italia la crescita della produttività del lavoro è stata fiacca per quasi 20 anni: crescita media annua di un anemico 0,3 per cento. Impietoso il confronto con la crescita media annua di Germania (+1,5%), Francia (+1,6%) e Regno Unito (+1,5%) e pure della Spagna (+0,6%)

C’è poi da considerare la dotazione di tecnologia da parte delle imprese. Tra le misure di produttività, la produttività totale dei fattori è quella che misura la crescita del valore aggiunto attribuibile al progresso tecnico e ai miglioramenti nella conoscenza e nell’efficienza dei processi produttivi (è calcolata come rapporto tra l’indice di volume del valore aggiunto e l’indice di volume dei fattori primari, ossia lavoro e capitale). Ecco, tra il 1995 e il 2015, questa voce è diminuita a un tasso medio annuo dello 0,1 per cento. La buona notizia è che dal 2009 i valori sono migliorati, per quanto nel 2015 la crescita sia stata solo dello 0,4 per cento. Se si va a vedere il contributo al valore aggiunto del capitale Ict, cioè hardware, software e apparati per le comunicazioni, c’è stata ma è stata modesta, mai sopra lo 0,1% dal 1995 a oggi. Il Piano Industria 4.0 va nella giusta direzione per digitalizzare le imprese, anche se la mancata estensione del termine per la consegna dei beni, alla fine non inserita nella manovra correttiva, è stato un segnale non positivo.

Cosa dobbiamo aspettarci nei prossimi anni? Secondo le stime della Commissione, la produttività del lavoro dovrebbe crescere solo moderatamente nel 2017 e 2018, ben al di sotto del tasso di crescita previsto per la zona euro. La Relazione dice che qualche passo avanti è stato fatto, su mercato del lavoro, settore bancario, istruzione, pa e sistema giudiziario. I vantaggi si vedranno però solo nel medio periodo. Intanto, nota il documento di Bruxelles, dalla metà del 2016 c’è stato un certo rallentamento del processo di riforma. C’era un referendum di mezzo. Così come oggi si avvicinano le elezioni. Intanto il ddl Concorrenza è fermo dal 2015 in Parlamento.

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