Negli ultimi vent’anni Vanni Santoni si è guadagnato uno spazio importante nella cultura italiana, che la candidatura del suo ultimo libro al Premio Strega non fa che aumentare e rendere ancora più palese. È uno spazio che ha una particolarità abbastanza unica in Italia: non solo è ricolmo di idee ardite, epiche fantastiche e progetti visionari, ma è anche una bacheca di progetti portati a termine, quasi tutti con successo.
La personalità editoriale di Santoni è unica quanto la sua capacità di portare in fondo i progetti che inizia. Un elenco parziale dei suoi migliori colpi editoriali conterrebbe Gli interessi in comune, libro ormai introvabile e di culto tra gli adepti di cui si racconta che neocopisti ne fotocopino le pagine per continuare farlo leggere, I personaggi precari, fotografia in tempo reale di una classe che sta diventando di massa; non dimenticherebbe quel vertiginoso esperimento di narrativa collettiva con struttura industriale culminata nel romanzo In territorio nemico; ma non finirebbe con un libro solo, ne proporrebbe due: il dittico di opere cugine, se non sorelle, iniziato nel ’14 con Muro di casse e riproposto in questo ultimo La stanza profonda, edito da Laterza.
Con le sue ultime due opere Santoni si è inventato un sottogenere unico, il romanzaggio, ovvero il trattamento narrativo mai banale, anzi spesso innovativo e straniante, a un mondo approcciato con una perizia a metà tra lo scienziato e l’antropologo, quella capacità di approfondimento organico e mai pesante che può permettersi soltanto chi conosce perfettamente il mondo che racconta.
Oltre a questi due ingredienti, a rendere La stanza profonda, al pari di Muro di casse, un libro importante è una abilità particolare che ha Santoni, che come un cane da tartufi scova nelle pieghe underground della nostra storia esperienze comunitarie anni novanta esperienze che la cultura dominante ha sempre stigmatizzato e trattato alla stregua di malattie e gli ridà valore: la cultura rave prima, quella dei giochi di ruolo ora.
Sembra strano accostare due esperienze che sembrano così radicalmente opposte un rave di un weekend in una valle e una partita di Dungeons & Dragons lunga un anno nel buio di una cantina, eppure di cose in comune, le due esperienze, ne hanno parecchie e Santoni le enfatizza, ne fa le bandiere della controcultura della nostra generazione, nata tra i Settanta e gli Ottanta: la libertà, l’uguaglianza e la gratuità.
Sia in un rave che in un gioco di ruolo si entra uguali e si esce uguali. Nessuno vince, nessuno perde, tutti giocano, tutti ballano, tutti partecipano. Non c’è un palco a dividere chi mette musica da chi la balla, come non c’è un trono su cui si siede il Master, il narratore dei giochi di ruolo: c’è un tavolo, ci sono delle matite, dei coltellini e dei dadi, tutt’al più uno schermo a riparare qualche segreto narrativo del Master. Nessuno paga, nessuno è pagato. È un atto gratuito, come gli atti di amore e di amicizia.
Il mondo che emerge dal racconto di Vanni è sotterraneo come le stanze in cui queste piccole avanguardie di sognatori un po’ dissociati si trovavano a tessere i propri immaginari, che fossero fantasy o realistici, che durassero degli anni o che si esaurissero in poche partite. Ma è anche un mondo ormai desolato come le Terre di Eliot che Leia traduce in dialetto del Valdarno, perché di quello che a un certo punto era un esercito di appassionati nelle stanze profonde ormai è rimasto poco.
Quell’avanguardia di creatori e popolatori di mondi, custodi di una virtualità analogica che non è più ripetibile; è stata sommersa dalla potenza visiva e interattiva dei videogiochi, che hanno salvaguardato quei mondi narrativi in ottica commerciale e soprattutto individuale, un po’ come un zoo salvaguarda un branco di scimmie, ma soprattutto dalla nuova giungla di identità virtuali che sono i social network, la cui virtualità digitale però, a differenza di quella analogica di chi amava giocare di ruolo, non disimpegna l’ego della gente creando identità parallele, ma al contrario lo moltiplica, lo deforma, lo mostrifica.
All’inizio del libro, quando il narratore prende il lettore per il bavero della seconda persona e gli descrive il paese com’è oggi, l’ultima menzione è per quello che negli anni Trenta era il palazzo del Podestà e che poi, nell’Italia liberata, è stato fino agli anni Ottanta l’ufficio delle poste. È uno dei punti in cui più si sente il sapore della nostalgia, ma una nostalgia vaga ma potente, non legata didascalicamente al gioco, alle esperienze o alla terra. È una nostalgia di cui è possibile che la generazione di Santoni, e di chi scrive queste righe, l’ultima ad aver vissuto una realtà (e una virtualità) puramente analogica, sarà tra le ultime depositarie e che sta tutta in una frase:
«Ora [il palazzo del Podestà] è nuovamente un monumento al niente, proiettato verso un’epoca in cui il passato sarà così passato da schiacciarsi, con buona pace dei nonni partigiani: gli anni trenta, gli ottanta, arriverà a dire qualcuno, qual era, poi, la differenza? In entrambi c’era qualcosa, e ora non c’è niente…».