Studiare il valore della legalità fa parte ormai “della biografia” delle giovani generazioni di italiani. Anche se sono le prime a non aver vissuto direttamente l’epoca dei grandi scandali e delle stragi di servitori dello Stato che hanno segnato il passaggio fra la prima e la seconda repubblica. E anche se la politica contemporanea “manca” di storie esemplari. Nando Dalla Chiesa, 67 anni, è stato un attivista e un politico di area progressista, è uno scrittore, è presidente onorario di Libera. Suo padre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, è stato ucciso dalla mafia a Palermo nel 1982. All’università Statale di Milano, Dalla Chiesa insegna da alcuni anni sociologia della criminalità organizzata, lunedì ricomincerà il corso. A suo avviso, la consapevolezza che il malaffare non sia un destino ineluttabile del Paese “è una delle più grandi conquiste di questi anni”. Benché conquista silenziosa e ancora debole fra quei giovani che invece faticano a mobilitarsi. “Gli studenti – dice Dalla Chiesa in questa intervista a Linkiesta.it – spesso arrivano a interessarsi di criminalità oragnizzata per curiosità. Poi attraverso la conoscenza arriva la passione e capiscono che c’è un sistema che incorprora fisiologicamente il fenomeno mafioso. Poi ancora capiscono che questo fenomeno mafioso ha la possibilità di muoversi e di espandersi perché c’è molta corruzione e c’è molta ignoranza. Da qui scatta la molla per costruire un’etica pubblica più consapevole, più attenta. Un’etica pubblica che consente di chiudere i varchi e di chiudere i varchi anche dell’ignoranza. Perché essere competenti, conoscere, significa anche intervenire su certi comportamenti che guastano quell’etica pubblica”. Per Dalla Chiesa, “con questi ragazzi è come se si fosse insediato un pezzo di Stato nella società italiana”. Ma con un risvolto amaro: molti degli studenti più impegnati su temi come la tutela dei diritti, la lotta alla corruzione o al crimine organizzato, per realizzarsi professionalmente finiscono a lavorare all’estero.
Professor Dalla Chiesa, lei insegna e parla negli incontri pubblici a una generazione di studenti che non hanno vissuto in prima persona gli anni delle stragi e dei grandi scandali italiani.
Questa è una cosa importante: non è una generazione che abbia acquisito una consapevolezza della pericolosità della mafia, o la voglia di combatterla, a partire da grandi traumi o dalle scie di sangue pubbliche. E questo penso sia un segno di maturità, se pensiamo a quella riflessione amara che fece Giovanni Falcone: ci vorrebbe un morto eccellente all’anno per tenere alta la tensione. Sapendo lui stesso che poteva essere uno di quelli, come poi è stato. Oggi, senza un’emozione forte dietro, c’è il 21 marzo, ci sono i 25.000 ragazzi di Locri, i 200.000 di Bologna due anni fa. E capiamo che c’è stato un salto: questi ragazzi sono cresciuti non nei traumi ma nell’educazione alla legalità, in un confronto con la presenza della mafia, della camorra e della ‘ndrangheta, con le loro ingiustizie. Un fatto importante, credo dovuto anche alla presenza di Libera. Con questi ragazzi è come se si fosse insediato un pezzo di Stato nella società italiana.
Una consapevolezza che non c’è solo al Sud, ormai.
No. Anche se non ce ne rendiamo bene conto, la capacità di assorbire dentro la propria biografia quei fatti e di non considerarli lontani è molto alta ormai. Ed è stata una delle più grandi conquiste di questi anni.
Non pensa però che il dibatitto pubblico non abbia approfondito abbastanza l’effetto di quegli anni, che restano lontani per quei giovani che non si informano o si mobilitano e probabilmente non si confronteranno mai con quel passato?
A volte ho anch’io questa sensazione. Però ci vuole poco a recuperare. Quando si dice o si vede nelle ricerche che quei giovani non sanno che cosa è accaduto in passato, io rispondo: un ragazzo, se nessuno gli insegna a scrivere, come impara a scrivere?
E chi può insegnargli a scrivere?
Intanto sono le famiglie che dovrebbero raccontare. Perché la narrazione familiare è fondamentale per trasmettersi conoscenze, ricordi, le cose che rimangono. Poi ci sono le scuole. Poi ci sono le università. E nelle università non bisogna fare l’ora di educazione civica, l’ora di legalità. E’ anche attraverso il racconto e gli esempi che si forma una cultura antimafiosa. Quando inizio le lezioni, prima ancora di dire qualsiasi parola, faccio sempre un questionario da dare ai miei studenti. E poi glielo rifaccio alla fine del corso, per vedere che cosa hanno imparato. E’ su questo che io mi devo misurare, una volta che verifico il loro livello di formazione. Voglio capire se considerano Peppino Impastato un mafioso o un antimafioso.
Che idea dell’etica pubblica hanno i suoi studenti?
Se la formano, l’idea. Perché loro spesso arrivano a interessarsi di criminalità oragnizzata per curiosità. Poi attraverso la conoscenza arriva la passione e capiscono che c’è un sistema che incorprora fisiologicamente il fenomeno mafioso. Poi ancora capiscono che questo fenomeno mafioso ha la possibilità di muoversi e di espandersi perché c’è molta corruzione e c’è molta ignoranza. Da qui scatta la molla per costruire un’etica pubblica più consapevole, più attenta. Un’etica pubblica che consente di chiudere i varchi e di chiudere i varchi anche dell’ignoranza. Perché essere competenti, conoscere, significa anche intervenire su certi comportamenti che guastano quell’etica pubblica.
E di che cosa sono più curiosi? Di storie che rendano più concreta l’idea di legalità?
Io nutro di esempi, non ci sono le storie. Ci sono gli esempi, negativi o positivi, che illustrano la qualità di questa lotta. Evito di parlare di mio padre, perché nessuno deve pensare che io sia lì in quanto figlio di vittima che quindi si occupa di mafia. Parlo di altre persone, il cui ricordo mi sta a cuore. Devo far capire, quando si parla della legge sui beni confiscati, che Pio La Torre ha pagato con la vita questa legge, sennò questi beni non hanno valore. Certo, poi capisco che gli studenti apprezzano le storie, a volte mi arrivano richieste di tesi di laurea che sono fatte su storie di persone: da padre Puglisi a Peppino Valarioti, che il ragazzo calabrese considera la manifestazione positiva della storia della sua regione. Ce l’hanno, il gusto delle storie: io non le racconto, le faccio vedere.
Per tornare al dibattito pubblico di questi anni: sembra che rispetto a prima, all’epoca pur dolorosa delle stragi, manchino testimonianze forti, esempi positivi. Esempi largamente condivisi, in una società che si informa in modo frammentario e si divide in tifoserie. Non trova?
Beh, sicuramente mancano nella politica. Se pensiamo che è la massima rappresentazione dell’impegno pubblico per la collettività, avere la politica senza esempi positivi è una maledizione per un popolo. Ne hanno alcuni altri, di esempi, per fortuna. Alcuni magistrati, don Luigi Ciotti, alcuni maestri di strada. Forse anche alcuni giornalisti e intellettuali che vengono molto considerati rappresentano dei punti di riferimento. Ho la sensazione che questa idea del ‘noi’ che progressivamente è stata inserita nella coscienza di questi ragazzi abbia però anche costruito una loro capacità di vedersi come una entità collettiva che certo deve avere dei punti di riferimento, perché quando incontrano persone che hanno qualcosa di vero da raccontare non se ne andrebbero mai via. Però deve avere soprattuto dei propri principi.
Di che cosa hanno paura i suoi studenti? Come vedono il futuro?
Lo vedono attraverso la capacità della società di accoglierli, di valorizzarli e giudicarli per i loro meriti. Infatti uno dei crucci maggiori che ho è la quantità di ragazzi che vanno all’estero per vedersi lì riconosciuti i loro meriti, perché qui non ci sono mai risorse e invece poi vediamo che ci sono. Questo è intollerabile, per una persona che ama i propri studenti e il proprio Paese.
Studiare temi come la legalità è dunque anche un modo per riflettere criticamente su una società che non dà risposte?
Guardi, serve anche per preparasi a professioni fuori dal nostro Paese. Perché alcuni lavorano in funzioni anti-riciclaggio, anti-frodi in istituti bancari o finanziari all’estero. Alcuni lavorano all’Onu negli uffici antidroga. Alcuni fanno giornalismo in Uruguay o in Libano, si occupano di diritti, di narcotraffico, di criminalità. Molti altri lavorano nelle Ong, anche in Africa. Si tratta di giovani che quando vanno all’estero non buttano via quello che hanno imparato qui. Quindi non studiano certi temi solo per capire ma anche per costruirsi un loro profilo. Sanno che servono competenze adeguate.
Una delle storie che i giovani italiani nati dopo la caduta del Muro di Berlino conoscono meno è probabilmente quella di Tangentopoli. In queste settimane ci sono stati numerosi convegni sui venticinque anni dell’inchiesta Mani Pulite: sale vuote e pochi ragazzi coinvolti. Che ne dobbiamo dedurre?
Ma neanch’io ci sarei andato alle cose dei venticinque anni, pur essendo stato fra i protagionisti delle manifestazioni e delle denunce di allora. Perché sono i venticinque anni di una punizione, non sono stati una festa. Certo le fiaccolate fatte a Milano allora sono state fiaccolate che avevano il senso della festa. Però non mi viene da festeggiare l’arresto di Mario Chiesa, mi viene voglia di ricordare venticinque anni dopo Falcone e Borsellino. Mi è venuta voglia di ricordare la polemica sui professionisti dell’antimafia trent’anni dopo, perché incide ancora e non è chiusa. Ma tornare a Mani Pulite non mi viene spontaneo. E’ che se devo capire come lottare contro la corruzione, il convegno mi interessa. Se devo invece ricordare come si è vinto per via giudiziaria un ceto politico o imprendtoriale, la cosa mi coinvolge di meno. Figurariamoci i ragazzi.
@ilbrontolo