Benvenuti a Milano, la capitale della depressione culturale

Contro il “modello Milano”, parte seconda: la città più europea d’Italia batte tutti i record, eppure la sua vitalità, selettiva per censo, sembra faticare di fronte a tanta goduria. Ci si diverte ma la scena culturale appare più depressa che mai

Milano da mangiare è insipida. E non v’arrabbiate, che il campanilismo è vizio provinciale e non s’addice a una capitale europea. Possiamo spiegare. Quanto sia «bella, moderna ed efficiente» – ha scritto Mattia Feltri sulla Stampa, a marzo scorso – Beppe Sala e Roberto Maroni sono volati a Londra per illustrarlo con l’intenzione di attirare l’Agenzia europea del farmaco. Il posto c’è: Pirellone o ex acciaierie Falck, a Sesto San Giovanni, «dove sta per nascere un polo della ricerca e della salute fra i più grandi del mondo».

L’anno scorso, Renzo Piano aveva abbandonato il progetto di riqualificazione dell’area dopo che 140mila metri quadrati erano stati venduti a un gruppo di arabi, intenzionati a costruirci sopra un megacentro commerciale e un parco divertimenti, che per l’archistar rappresentano «l’esatto opposto della mia idea di urbanità». Pruderie intellettuale, chissenefrega. Milano da mangiare è un cantiere incessante, fomentato da una non-idea, anzi da una post-idea di urbanità non necessaria, ma bellissima (esempio: il famigerato bosco verticale è vuoto, per una ragione che forse si spiega bene partendo dal fatto che, per vedere gli appartamenti, è necessario lasciare un’ingente caparra all’agenzia immobiliare).

Il nuovo skyline toglie il fiato (non sembra italiano! dice l’italiano scemo) e t’invita a una mensa dove il futuro non è né ipotesi né sogno, ma inizio e i numeri lo confermano: Milano è la città con il maggior numero di donne che lavorano in Italia. Il Pil procapite è di 45 mila euro contro i 31mila dei cittadini romani. In un confronto tra ricerca scientifica italiana e tedesca, la proporzione sarebbe di 100 a 75 per la Germania, ma Milano – Humanitas, San Raffaele, Ieo, Istituto Tumori – batte i tedeschi 120 a 100, almeno così ha detto di recente, in un forum di innovazione e ricerca organizzato da Il Foglio, Alberto Mantovani, uno dei più importanti immunologi al mondo, direttore scientifico di Humanitas e docente nell’annessa università con sede a Rozzano. Come non trasferircisi.

Su Google, “come si vive a Milano” è una delle frasi più digitate. Apple aprirà (forse) a Natale dove un tempo c’era il cinema Apollo, Amazon agli inizi del prossimo anno, Alibaba (l’Amazon cinese) è già in città in Corso Europa. Sono nati due nuovi distretti (tecnologico e business). Sky e Mediaset stanno, nemmeno troppo progressivamente, abbandonando Roma e traslocando nella City. Se ne va anche la redazione romana di Libero: Feltri ha detto che «la politica non tira più». Niente distretto dell’informazione, però: i giornalisti, soprattutto giovani, da Milano vengono spediti a Chiasso. In questi giorni è finalmente venuto fuori il caso di Hearst Italia, che ha mandato le redazioni digital di Elle, Cosmopolitan, Marie Claire e Gioia in Svizzera, dove la pressione fiscale è assai inferiore e il lavoratore, anche da pendolare, costa meno all’azienda. Non è un caso isolato: le aziende e gli studi professionali medio-grandi che ricorrono a questo trucchetto sono parecchi. È un dettaglio piccolo ma non irrilevante, racconta l’esistenza di una difformità tra lo storytelling dell’inclusività milanese e l’effettiva capacità di inclusione che ha la città.

L’imbruttimento, però, è un dato culturale recente. Il successo del “modello milanese” ha fatto sì che in città esordisse la protervia. I romani hanno abbassato la testa, nessuno osa dire che la cosa migliore di Milano è il treno per Roma, i giornali hanno allestito una battaglia all’ultimo sangue, costringendo le due città a competere: Milano ha vinto e continua a sentirselo dire. Ma la voce di Milano su Milano da dove arriva?

Una difformità che tarla, per esempio, la (giustamente) incensata sanità lombarda: la giornalista di FanPage Charlotte Matteini ha denunciato di recente, su Facebook, che «basta uno stipendio normale per non rientrare nei requisiti Isee imposti dalla Regione Lombardia ed essere costretti a pagare l’intera retta per il ricovero, che ammonta a circa 1500/2000 euro al mese», raccontando della situazione di suo padre, affetto da una malattia neuro-degenerativa, curato da due anni da sua madre, sessantasettenne, completamente sola. «Ordini una pizza e si faccia portare del ghiaccio», ha consigliato un paziente del pronto soccorso del San Raffaele a Michele Monina, scrittore e giornalista. In accettazione, gli avevano detto che sua figlia, una mano scassata, doveva aspettare quattro ore e il ghiaccio glielo avrebbero dato solo dopo averla visitata. Bar chiusi, non restava che un pony. Il milanese s’adatta alla gentilezza negata (la vogliamo chiamare burocrazia?), ma Monina, sarà che è testardo e anconetano, no. «Milano – racconta a Linkiestaè una città che fa per l’accoglienza cose che molte altre città non fanno: penso all’assessore alle politiche sociali del Comune, Maiorino, che non si perde in comizi e va a dare una mano in Stazione Centrale agli immigrati». Ma?

«È anche una città impietosa: se non stai al suo ritmo, se sei un pensionato, se perdi il lavoro, sei finito e non ti aspetta. E, soprattutto, richiede che tu sia ricco: io ho quattro figli piccoli, se non ci fossero gli oratori dove mandarli d’estate, finirei sul lastrico». Vent’anni fa, quando Michele è arrivato a Milano, la città era ingrigita dalla narrazione sotto cui piegava la testa e che la voleva frenetica, fredda e senza pietà, il sindaco Formentini non era esattamente un progressista, ma si lavorava in quel modo, meritoriamente invalso, che fatica a decollare nel resto del paese: proporzionalmente alle proprie capacità. Milano ha compiuto i suoi splendidi miracoli coniugando in modo esemplare e virtuoso la meritocrazia. Ed è stato soprattutto il suo rigore calvinista a procurarle la cattiva fama che per decenni l’ha servita al paese come bigia capitale industriale.

Lo era davvero? Solo in parte: aveva un antidoto. Era una città profondamente morale, colta, vibrante, pensosa. Intimidita dall’enorme fraintendimento sul suo conto, non nascondeva i suoi conflitti, le sue amarezze. Nella comicità milanese di Giorgio Gaber, Jannacci, Beppe Viola, c’era sempre una penitenza privata e collettiva. Quel modo sobrio di prendersi per il culo che era però accusatorio e mai compiaciuto (come nella comicità toscana o romana) e che impediva allo spirito storicamente signorile della città di farsi snob. Non è facile capire quando quella penitenza, se pure giocosa, ha smesso di permeare la coscienza dei milanesi, ma se si guarda una puntata qualsiasi della web series Il milanese imbruttito si capisce anche che, in fondo, Milano non ha perso la capacità di guardarsi con ferocia e restituirsi, deridendosi, senza assoluzioni.

A Milano, c’è caciara: ci si diverte. Ma c’è pure un brutto silenzio. Non era mai successo. Sarà perché arte e cultura nascono dal conflitto e, invece, a Milano si vive così tanto bene che non esiste conflitto?

L’imbruttimento, però, è un dato culturale recente. Il successo del “modello milanese” ha fatto sì che in città esordisse la protervia. I romani hanno abbassato la testa, nessuno osa dire che la cosa migliore di Milano è il treno per Roma, i giornali hanno allestito una battaglia all’ultimo sangue, costringendo le due città a competere: Milano ha vinto e continua a sentirselo dire. Ma la voce di Milano su Milano da dove arriva? Sotto l’amministrazione Pisapia, un uomo di sinistrissima votato perché facesse cose di sinistra, quando ancora s’era convinti che le cose di sinistra afferissero alla cultura, sono stati messi i sigilli a centri sociali, teatri, cinema e tutti quegli spazi che per decenni, fino agli anni Novanta, a Milano hanno attratto musicisti, artisti, scrittori. Incredibilmente, Beppe Sala ha preso voti pure al Leoncavallo, un centro sociale storico, che resiste agli sgomberi. La rimpianta scena musicale dell’underground milanese, che vent’anni fa tirò fuori Afterhours, La Crus, Scisma, Ritmo Tribale, Cristina Donà (nessuno che fosse milanese indigeno, a riprova dell’accoglienza della città) non ha lasciato eredi.

Scrittori? «Ferruccio Parazzoli e Giuseppe Genna credo siano i soli scrittori che non hanno smesso di raccontare Milano, sebbene vivano ai suoi margini», dice Monina. Il punto è che Parazzoli ha 82 anni e Genna 47. Giovani all’orizzonte non se ne vedono. La parola che da Milano arriva al resto d’Italia è quella del rap fighetto di Fedez, J Ax, Emis Killa, Club Dogo, Dargen D’Amico ed è una parola perfetta, efficace, paracula, che contiene uno scontro finto con la realtà, una rabbia annacquata, una protesta studiata per far soldi. Non che ci sia niente di male. Ma i soldi per i soldi sono una novità imbruttita.

«Mentre si cercano nuovi strumenti educativi per combattere la crisi, si dimentica che il primo problema è di tipo educativo, sulla capacità di dare forza culturale, educazione, senso di appartenenza al mondo e alle cose»: era il 2005 quando, in un’intervista a Tempi significativamente intitolata “Se sta male Milano, sta male l’Italia”, il presidente della Compagnia delle Opere, la più grossa associazione di imprenditori allora presente a Milano, parlava dell’importanza di agganciare un modello di crescita economica all’idea fissa di un senso, un “perché delle cose”. Non molto tempo dopo l’economia mondiale sarebbe crollata per lo scandalo Lehman Brothers, che è stato proprio figlio di quel mancato aggancio. Oggi, dentro al miracolo milanese che si candida a trainarci (o forse solo a farsi guardare, come fosse un mondo delle idee rispetto a cui il resto del paese deve porsi come demiurgo) il laboratorio di quei perché sembra mancare.

Jacopo Cirillo, milanese adottivo (viene da Faenza), giornalista culturale, mente di Finzioni (webzine letteraria di successo) e animatore culturale, ci dice che questo è un momento in cui fare le cose a Milano è incredibilmente più facile e bello rispetto a prima: perché non credergli. L’attività culturale della città è briosa: ha sempre un centro e un off, come a New York. Ha il limite di non essere propriamente democratica: l’aggregazione, a Milano, costa. Uscire di casa, costa. «Milano è un ospedale», canta Calcutta (con buona pace di Manuel Agnelli, che ha detto su questo giornale che l’indie pop romano è una montatura, è innegabile che nei testi della “scena romana” si rintraccia uno spirito, un tentativo di dire delle cose, un umore, derivanti tutti da uno scontro vero e non simulato con la realtà). L’altro limite è che, nonostante questa vitalità, da Milano esca molto poco. L’ultimo film che ha detto una parola milanese all’Italia è stato Happy Family di Gabriele Salvatores, che aveva capito, in largo anticipo, che l’Italia aveva bisogno di una Milano che facesse scoprire i suoi colori. Poi, però, una volta mostrati, i colori sono stati laccati.

A Milano, c’è caciara: ci si diverte. Ma c’è pure un brutto silenzio. Non era mai successo. Sarà perché arte e cultura nascono dal conflitto e, invece, a Milano si vive così tanto bene che non esiste conflitto? Eppure, quando è arrivato in città, Papa Francesco è andato nelle periferie: non sembravano esattamente zone risolte. Come mai le tensioni e i paradossi della città non trovano espressione e perché per nessuno dei suoi cantori la cosa non rappresenta, se non un problema, una domanda. È rimozione? Lunedì scorso, il nostro direttore ha pubblicato un editoriale nel quale metteva in fila una serie di cose (non ultime le inflitrazioni mafiose) che Milano sta seppellendo sotto al tappeto e con cui, invece, è il momento che cominci a fare i conti. Le reazioni sono state piuttosto violente.

Al campanilismo da due soldi non ci rassegniamo: Milano sa dove trovare le energie per capire che romperle le palle anche quando tutto va o tutto sembra andare bene è cosa che hanno fatto non solo tutti i suoi timonieri, ma pure i suoi innamorati. «Credo che Milano stia vivendo un momento non tanto di stallo, quanto di fievole moto. Continuano a succedere cose, la direzione è ancora quella giusta, ma il voltaggio è minore. Il grosso delle energie ce le siamo spese per Pisapia, la causa era giusta e la motivazione enorme. Ora c’è un po’ di stasi, ma non è una stasi negativa. Abbiamo meno di cui strillare, ma siamo ancora noi, diversi da tutto il resto, anche se apparentemente meno connotati. Le cose più belle che vedo succedere non fanno rumore. Ma succedono». Parola di Micol Beltramini, scrittrice che nel 2008 (quando Milano era ancora Madunina, berlusconismo e zanzare) ha pubblicato il best seller 101 cose da fare a Milano almeno una volta nella vita, un libricino meraviglioso con dentro la Milano di cui l’Italia ha e avrà sempre bisogno.

«Per la prima volta in molti anni, cambiano i protagonisti degli intervalli tra un atto e l’altro dell’opera inaugurale: via la cultura, avanti la finanza, poca Milano, molto mondo», Natalia Aspesi, su Robinson-La Repubblica, a dicembre scorso, in occasione della prima della Scala. Anche Milano ha e avrà sempre bisogno di Milano.

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