I sindacati a Portella delle Ginestre, gli autonomi a Torino a menarsi con la polizia, i centri sociali da Carrefour per protestare contro il lavoro festivo notturno, il Concertone aperto dal ricordo delle lotte delle mondine: anche questo Primo Maggio se ne è andato sull’onda della nostalgia.
Ciascuno ha scelto la sua icona di riferimento – le grandi ribellioni per la terra, il friccicchio dei passamontagna, i picchetti ai cancelli, la resistenza al Signor Padrone – per la recita di giornata, consapevole della difficoltà di arrampicarsi sullo specchio dell’Articolo Uno della Costituzione. Il lavoro come diritto è finito e sta esaurendosi anche come opportunità, ci dice uno studio dell’Istituto Toniolo raccontandoci che l’80 per cento dei giovani adulti italiani (18/32 anni) resta a casa con i genitori perché non ha un reddito sufficiente per sostenere una vita autonoma, ne’ la fondata prospettiva di conquistarselo.
«Otto ore di lavoro, otto di svago, otto per dormire». La storia della Festa dei Lavoratori cominciò così, quando sembrava che il problema fosse l’eccesso di fatica, l’insostenibilità dei turni, il peso del cottimo, e non la sua mancanza. È finita in espressioni e rivendicazioni assai più complicate, una nuvola dialettica in cui negli ultimi trent’anni ci siamo impigliati tutti – flessibilità, formazione permanente, salario di sostituzione, salario di riserva, interinale, imprenditività individuale – miseramente dissolta, almeno in Italia, dalla brutale inamovibilità delle statistiche sulla disoccupazione, alla quale nessuna voce di un immaginario Manuale del Nuovo Lavoro ha trovato soluzione:
Flessibilità
Il grande mito degli anni ’90 e Duemila. La base teorica del famoso “il posto fisso è monotono” (cit. Mario Monti) che sarà pronunciato molto più tardi, nel 2012, quando la frittata era già fatta. È Tiziano Treu a trasformare il modello teorico della flessibilità in legge, nel 1997, governo Prodi. Sono tutti contenti. Nasce il lavoro interinale, è abolito il monopolio pubblico del collocamento. «Cura d’urto del governo per Sud e occupazione», titolano i giornali e persino Cofferati applaude. Sappiamo come è finita. La concorrenza al ribasso sui salari è diventata la norma. Nella più importante manifestazione italiana degli ultimi anni, l’Expo, la più grande agenzia di interinale del mondo, Manpower, ha offerto posti a 500 euro mensili, e c’era la coda per aggiudicarseli.
Self-employement
La storia miracolosa della start-up che porta le pizze, della fashion blogger che fa i soldi con borse di copertoni riciclati, dell’allevatore di lumache, e la lunga sequela di giovani miliardari segnalati nel colonnino destro dei giornali on line, sono tutti figli della stessa espressione: “Diventa imprenditore di te stesso”. Self-employement. Auto-impiego. E’ stato uno dei cavalli di battaglia del centrodestra, che per anni ha accusato l’articolo 41 della Costituzione (quello che vieta all’impresa di agire «in contrasto con l’utilità sociale») di essere la vera palla al piede della naturale creatività e capacità di intraprendere italiana. Poi il dibattito è passato di moda, il self-employement ha trionfato, ma in genere consiste in affannosi funambolismi tra attività di dog sitter e fattorino Fedoora per mettere insieme i soldi della benzina e del cinema.
Formazione permanente
Anche detta Lifelong Learning. È incardinata da convenzioni e trattati internazionali, compresa la mitica Conferenza di Lisbona. E’ l’idea per cui io, che ho fatto la giornalista per molto tempo, potrei in caso di necessità imparare a guidare il camion e fare la camionista. Solo che i camion italiani li fanno guidare a camionisti assunti da agenzie interinali rumene, con contratto rumeno, e talvolta pagati in Leu (vedi scandalo Ceva Logistic): 300 euro al mese e zero contributi. E potrei essere la Niki Lauda dei Tir, ma a quel prezzo non posso lavorare.
Licenziamento
E’ il mito fondante di tutte le espressioni sopra citate, e cioè l’idea che esista un rapporto diretto tra difficoltà di assumere e difficoltà di licenziare. Da questo mito discende appunto l’irenica visione di un mondo dove si cambia lavoro spesso, ci si istruisce nei periodi di riposo tra un’occupazione e l’altra, e sempre si troverà qualcuno che ti assume, ti mette alla prova, poi toccherà a te farti apprezzare e conservarti il posto, o scegliere di andare altrove. I quattro quinti degli economisti e dei politici italiani, per un trentennio, ci hanno creduto come a un dogma indiscutibile. Poi il dogma si è incarnato. Il Jobs Act ha abolito gli odiosi vincoli del “posto garantito”. Non è successo niente. Né assunzioni in massa, né licenziamenti in massa. Niente del tutto. Trent’anni di parole e di analisi bruciate.
In questo turbine di costruzioni ideologiche, una dopo l’altra smentite dalla realtà, la profezia dell’Istituto Toniolo che descrive un’Italia futura senza “adulti” – cioè persone economicamente autonome, che mettono su casa, fanno figli, si assumono responsabilità – appare un rischio concreto, e forse è anche per questo il nostro Primo Maggio non può che essere vintage, appeso ai ricordi del passato, alle parole di quando si lottava per il lavoro perché il lavoro c’era, e c’erano i lavoratori. Con i self-employers o i lifelong learners nessuno ha ancora capito bene come regolarsi ed è dubbio, persino, che questa Festa possa essere la loro.