Provate a elencare dieci donne eccezionalmente cattive della letteratura. Possibilmente protagoniste, possibilmente scevre dalla latente giustificazione esistenziale che non le vorrebbe come sono. Unapologetic. Conclusione dopo almeno cinque minuti di mente locale? La letteratura non è il posto ideale per essere cattive. A meno di non finire nelle mani di Shakespeare e diventare Lady Macbeth.
Questa riflessione, e i suoi scarni risultati, sono stati i punti di partenza per ragionare sull’accoglienza di un recente bestseller ovvero il tentativo di spiegare il motivo per cui, alla vigilia dell’uscita di Domina di Lisa Hilton, secondo volume dell’annunciata trilogia di Judith Rashleigh iniziata con Maestra, un coro di critiche si sia innalzato più alto e più convinto sopra le altre considerazioni possibili.
E se Judith fosse invece la cattiva che mancava? Lucida, scaltra, gratuita e abilissima, come Moriarty o come un antagonista a caso di 007, se fosse uomo. Ho detto se. Perché invece è donna, così, prima di assaporare il personaggio nella sua pienezza e per le sue imprese, la critica in generale si è sentita in dovere di chiamare in causa: 1) la sua avvenenza; 2) la sua sessualità; 3) i punti in comune con la biografia della sua autrice; 4) il suo potere di liberare od opprimere ulteriormente l’universo femminile. Hanno dovuto paragonare la trilogia alle Cinquanta sfumature, tentando di farla finire, con una spinta sorniona, nel cantuccio della letteratura erotica senza, peraltro, ve ne fosse specifica e piena attinenza.
Molto più che in Maestra, in Domina l’autrice spoglia (soprattutto metaforicamente) la sua protagonista da ogni maschera, lasciando che la sua nuda provenienza salga a galla fin dai primi capitoli. Un modus operandi questo che la accomuna all’altra cattiva, protagonista e seriale che, sì è vero, troneggia nella letteratura contemporanea, Lisbeth Salander. Scritta da un uomo, inequivocabilmente ai margini fin dal principio. A parte età, intelligenza ed efferatezza, Lisbeth non ha nient’altro in comune con Judith, si stanzia cioè in un universo parallelo che difficilmente entra in collisione con l’orbita del lettore.
Che sia dunque la capacità di essersi lasciata alle spalle radici tanto ordinarie e comuni al suo pubblico ciò che non si perdona a Judith? Vittima di bulle a scuola, figlia di una madre povera e alcolizzata, Judith Rashleigh punta tutto sull’istruzione e ne esce. Poi è anche bella, certo, ma poi. L’hanno chiamata novella Becky Sharp, tentativo, celato da complimento, di fugare anche l’ultima speranza di emancipazione dalla vecchia retorica con cui (non) si accolgono i romanzi dove l’essere donna conta, tra le altre cose.
Ci si è altresì dimenticati il solo vero delitto che a Becky non si riesce davvero a condonare: l’avere tentato l’ascesa, riuscendoci temporaneamente, dell’agognata scala sociale, la stessa che, sebbene molto più bagnata di sangue, sale anche a Judith. Se bisogna cedere a una punta di malizia, la doserei sul fronte autoriale, autorizzando al paragone di Lisa Hilton con la sua protagonista nel passaggio che la scrittrice ha percorso dal rivestire la figura di compassata autrice di saggi storici e, al massimo, biografie romanzate al ritrovarsi autrice di punta, coinvolta in tour promozioni mondiali con un contratto cinematografico in tasca. Il che ha il potere di irritare gli istinti bassi di chiunque.
Insomma, non si tratta di difendere un libro rivestendolo di una causa, ma la sequela di prese d’atto che l’incontro con questo scatena è degno di nota, se non altro perché sfocia nella constatazione di come nel mainstream i tempi non siano ancora liberi e maturi per un certo tipo di realismo criminale al femminile. Di come si inciampi in resistenze di ogni sorta nel lasciare che un personaggio di questo tipo cammini sulle sole proprie gambe, ma che le si erigano al contrario intorno muri per celarla e fossati per affondarla, a seconda dell’occhio di chi la coglie.
Sarebbe un ottimo segnale se la volontà di declinare le avventure della serial killer britannica di Lisa Hilton in una serie tv camminasse proprio nel sottile solco di consapevolezza che, distanziandosi dal sopra citato coro, si tenta di creare. Equivarrebbe al dare uno spin off a una sola delle detenute più impenitenti di Orange is the new black o proporre una Jessica Jones malvagia minus il côté da super eroina. Forse è in questo versante della narrazione, quello visivo, il luogo in cui bisogna riversarsi per accogliere l’alba di una apertura in termini di uguaglianza nello storytelling, sebbene sia la stessa autrice a invitare alla cautela. In merito all’approdo sul grande o piccolo schermo che sia Hilton ha raccontato a Finzioni: «I fatti ci sono tutti, ma non voglio pensarci troppo adesso perché la sensazione che arriva dai produttori, nell’America di Trump, è che bisogna stare attenti ai messaggi che avvalli».
Prendendo atto dell’ennesimo cartellino giallo, torniamo allora alla letteratura, dove però per incontrare un’auto-consapevolezza fresca sull’argomento, bisogna entrare nel Tardis e uscirne a metà dell’Ottocento, nello Yorkshire delle sorelle Brontë. È questo lo schermo epocale che è servito agli sceneggiatori film tv To walk invisible, andato in onda a dicembre 2016 su BBC One, per sollevare la questione, mettendo in bocca alla più talentuosa del trio, Emily, questa frase: «When a man writes something, it’s what he’s written that’s judged. When a woman writes something, it’s her that’s judged».
Se ancora oggi è questa la voce che continua a risuonare anche nei megafoni dell’arte che vende e che arriva ai grandi numeri, come sembra che sia, è ora di rompere la catena.