Guardare 1993 e scoprire che siamo tutti imbroglioni

L'intenzione è quella di far emergere il marcio, il peggio, i giochetti di potere, i teatrini, gli specchietti per le allodole e tutte quelle cose lì. La percezione è che, almeno per come questa vicenda viene raccontata, ci fossero in giro persone migliori nel 1993

«Cosa importa se muoio? Ho speso bene i miei soldi, ho fatto bene baldoria, ho accarezzato molte donne. Andiamo a dormire».

Stefano Accorsi, Leonardo Notte, citando Danton, nella battuta che apre 1993 – La serie, rende subito chiara una cosa: pensa di aver già visto tutto. E questo “tutto” gli ha fatto venire sonno.

Pretenziosetto, vero?

Un po’ come spiegare a suo figlio le sacre regole del gioco delle sedie manco fossero gli Hunger Games o la curva di Gauss in Bocconi. Mors tua, vita mea. Questa la seconda scena. Nel mezzo un siparietto di Bettino Craxi che non esce dal retro andando incontro a una piazza in piena rivolta contro di lui. E non esce dal retro di quel palazzo perché “è un gigante” anzi, no, perché “è finito”. Oggi si direbbe attention whore. Mors tua, vita mea. Sigla d’apertura.

Dev’essere stato un bell’anno il 1993. Uno di quegli anni in grado di tenere svegli anche le menti più assonnate. Come quella di Leonardo Notte per cui vale e varrà sempre il teorema di Virna Lisi: se lei con quella bocca poteva dire qualunque cosa volesse, Accorsi può fare esattamente lo stesso. Con quella voce. Avvincente poi il controcampo nei giardini di Arcore tra lui e una papera, primo piano stretto, in modo che sia lo spettatore a stabilire quale dei due sia più espressivo. Su per giù alle origini del selfie duck face.

A livello squallidamente umano, non c’è una sottotrama individuale che sia poco credibile o meno interessante rispetto alle altre. Impresa ardua quando la soglia di attenzione media di chi guarda non supera spesso i quindici secondi di una Instagram Story

Dal punto di vista strettamente televisivo, guardando le prime due puntate, pare che gli sceneggiatori abbiano tenuto conto delle istanze sollevate dal popolo del web davanti a 1992: ridurre al minimo l’apporto di Tea Falco (compare per la prima volta al cinquantesimo minuto cercando di risolvere la piaga dell’Aids con un bicchiere d’acqua) e smettere di far accoppiare Accorsi ogni sessantanove secondi percepiti. Grazie, non c’è di che.

Il risultato è buono, molto buono. Fermo restando che lo sembrava anche dopo i primi due episodi di 1992, il risultato qui è o sembra buono perché la storia – “liberamente tratta da” come avvisa il lungo disclaimer iniziale – è raccontata bene. Con buona pace di quanto questa frase possa suonare banale. Perché non lo è. A livello squallidamente umano, non c’è una sottotrama individuale che sia poco credibile o meno interessante rispetto alle altre. Impresa ardua quando la soglia di attenzione media di chi guarda non supera spesso i quindici secondi di una Instagram Story. Soprattutto la soglia di attenzione di quelli che, nel 1993, non c’erano o, come chi scrive, erano all’asilo.

L’intenzione è quella di far emergere il marcio, il peggio, i giochetti di potere, i teatrini, gli specchietti per le allodole e tutte quelle cose lì. La percezione è che, almeno per come questa vicenda viene raccontata, ci fossero in giro persone migliori nel 1993. Persone migliori che si comportavano malissimo, certo, però mosse da qualcosa. Ogni cattiva azione perpetrata ha un fine. C’è, nitida, l’aderenza a uno scopo. Che sia finire intervistati da Maurizio Costanzo, riacciuffare la ex fidanzata o entrare in politica, non importa. Si può ancora credere ciecamente in qualcosa che sia l’amore o Gigi Marzullo, oggi? Era davvero così nel 1993?

Di sicuro in 1993 – La Serie, come nella vita oseremmo dire, c’è una netta distinzione tra buoni e cattivi, bianco e nero. I buoni sono quelli che paiono cretini. I cattivi ordiscono trame che i buoni non capiranno mai. E lo fanno prendendosi molto sul serio come se tra loro si comprendessero davvero. Poi c’è il buontempone con un sacco di grana che, tra una partita di calcio e una battuta sulla figa, vince il Game of Thrones all’italiana. Senza draghi ma con un buon numero di papere in giardino.

Era ora che l’Italia facesse pace con quel determinato periodo storico, dice più di qualcuno. Era anche ora che si facesse una buona serie tv senza dover necessariamente guardare oltreoceano. Perché le storie, buone o cattive, radical chic o terra a terra, le abbiamo anche noi. E potremmo saperle raccontare a prescindere dalle fazioni politiche di appartenenza – ammesso che questa sia ancora un’affermazione dotata di un proprio peso specifico, attualmente -.

Politica a parte, conosciamo tutti una Veronica Castello (Miriam Leone oltre ad essere l’ultima Miss Italia dotata di talento che ci è stata data, metterebbe a dura prova l’orientamento sessuale di chiunque la veda, compreso quello di chi scrive), un Pietro Bosco, magari perfino un Leonardo Notte o un Silvio Berlusconi. Ognuno di noi è un piccolo grande “professionista della mistificazione” sui fatti propri, su quelli altrui, sulle sorti del Paese. Fa parte del gioco, insomma, del gioco delle sedie. La domanda, poi, nel 1993 come nel 2017, resta la stessa: quando la musica finisce, chi resta in piedi? Mors tua, vita mea.

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