Trentasette anni tra fucili e rosari. Nicolai Lilin è un personaggio, sulla carta, e una persona, nella vita, del tutto singolare. Padre rapinatore di banche specializzato in furgoni portavalori, da ragazzino voleva fare il chirurgo perché gli piaceva ricucire gli amici quando finivano accoltellati in qualche rissa, la sera, in Transistria. Lì è cresciuto, tra guerre civili, criminalità e maiali che scappavano dai recinti. Se ne è andato, poi, anche lui, per diventare un soldato, un tatuatore, uno scrittore di best seller. La sua “Educazione Siberiana” è stata un caso letterario che ha cambiato pelle diventando film per la regia del premio Oscar Gabriele Salvatores. Da mercoledì 17 maggio Nicolai Lilin torna in tv su Crime+Investigation (Sky, canale 118) protagonista de “I miei 60 giorni all’inferno“, docu-reality realizzato nella Fulton County Jail di Atlanta, carcere di massima sicurezza. Gli basta guardare una persona negli occhi per capire la sua storia e, di conseguenza, come tradurla in simboli da inciderle nella carne, dice. L’inchiostro che sostituisce i coltelli, una metamorfosi, quella di Lilin, che per riuscire a comprendere almeno in parte va raccontata partendo dall’inizio, da quell’inizio che aveva tutti i contorni di una condanna, di una fine. Perché al principio di questa storia, della storia di Lilin, non c’era un bel niente. A parte l’inferno.
Cos’è l’inferno per te?
La prima parte della mia vita mi ha mostrato molti inferni diversi. Avrei difficoltà a dirti quale sia il peggiore. Sono cresciuto in un Paese che andava allo sfacelo. Il crollo dell’Unione Sovietica è stato molto violento. Il periodo post sovietico era un caos totale tra guerre civili, terrorismo, criminalità. Dopo aver vissuto tutto questo, potrei dire che la cosa più negativa che possa esistere per un essere umano sia l’assenza di libertà, l’inconsapevole tortura di condurre un’esistenza basata sullo schiavismo o su ideologie schiaviste. Dal punto di vista etico, culturale ed economico non ne siamo certo privi nella nostra società attuale. Pensa ai giovani, oggi, schiavi di sostanze, videogiochi o delle realtà estremiste. Fa tutto parte dello stesso vuoto.
Ne “I miei 60 giorni all’inferno” ci sono 9 persone innocenti che si fanno recludere volontariamente in un carcere di massima sicurezza. Onestamente, per te, sono più eroici o più fuori di testa?
Il lavoro dei ragazzi volontari lo definirei importante. Pur non avendo colpe, vanno a vivere per due mesi da reclusi in una delle prigioni più dure d’America e lo fanno perché vogliono condurre un’indagine sociale importante. Direi che stiamo parlando di persone motivate, molto motivate. E coscienti. Coscienti del fatto che nelle carceri di massima sicurezza ci siano criminali che hanno commesso reati gravissimi. Ma allo stesso tempo coscienti di quanto sia importante non tracciare una linea di separazione netta tra “noi” e “loro” perché siamo tutti il frutto, la proiezione della società in cui viviamo. Ciò vale per i detenuti, per le persone libere, come anche per tutte le brutalità del carcere che “I miei 60 giorni all’inferno” riesce a mostrare.
Tu stesso sei stato in carcere.
Sì. A 12 anni sono entrato in un carcere minorile di massima sicurezza.
Cosa avevi fatto?
Tentato omicidio. Una banale rissa per strada. Ai tempi giravamo sempre con armi da taglio ed è andata a finire che ho accoltellato una persona.
Chi era?
Un tossico molto più grande di me che voleva far pagare il pizzo a me e ai miei amici per aver attraversato il parco dove lui si bucava. Noi non avevamo intenzione di dargli dei soldi per questo. Lui ha cominciato a picchiarci con la bottiglia di champagne che aveva in mano. Sai, le bottiglie si spaccano solo nei film. Nella vita reale è il tuo cranio che si rompe, non il vetro. Dopo una serie di bottigliate in testa l’ho accoltellato, dovevo difendermi.
È vero che hai una collezione di rosari?
Sì, mi piacciono come oggetti ma non sono un accanito credente.
Non preghi?
Qualche volta sì, lo facciamo tutti.
Hai detto che in guerra diventano tutti religiosi.
Ho visto molti atei pregare, non solo in guerra.
Parliamo invece della tua collezione di fucili.
Quelli li costruisco.
Per hobby?
Ho imparato a farli quando ero nell’esercito russo. Facevo parte del corpo antiterrorismo presso i servizi segreti, la GRU. Ho fatto due anni e tre mesi di guerra cecena.
Ti hanno mai sparato?
Certo. Ma non solo in guerra. La prima volta che mi hanno sparato ero nel mio quartiere. Avevo quasi 15 anni.
La vita di strada ti inquadra, ti insegna come stare al mondo in modo onesto. Anche perché se non sei onesto, ti fanno a pezzi. Oggi sembra che nulla venga preso sul serio, i ragazzi bestemmiano e insultano le propri madri per scherzo, come fossero cose divertenti. Lo stesso bullismo è un’altra brutta espressione dei nostri tempi
Un’altra “banale rissa”?
No. In Transistria, dove abitavo con la mia famiglia, dopo la guerra civile era iniziata una specie di lotta per il potere tra criminali. Mio padre si era guadagnato un ruolo in quell’ambiente perché lui rapinava le banche. Era specializzato in furgoni portavalori. Aveva un’etica, però: non si mischiava con il narcotraffico e non uccideva persone durante le rapine. Lui e i suoi erano contro i nuovi criminali, collusi con stato e polizia, quelli che avevano portato la droga da noi. Per questo motivo ha subito tre attentati, a uno ho assistito anche io ed è stato lì che mi hanno sparato per la prima volta. A quel punto, per evitare ulteriori minacce alla famiglia, mio padre si è rifugiato in Grecia, mia madre in Italia. Io sono rimasto coi miei nonni.A quei tempi cosa pensavi che saresti diventato, da grande?
Avevo tanti pensieri diversi, parecchi sogni. La mia passione principale era la medicina. Volevo diventare chirurgo perché mi piaceva cucire le persone.Le persone?
Sì, cucivo i miei amici quando venivano tagliati in qualche rissa. Lo stesso facevo coi maiali che si ferivano la schiena fuggendo dal loro recinto. Questa passione e quel poco di tecnica me l’aveva ispirata il vecchio medico del quartiere. Lui mi ha aiutato molto, culturalmente: mi ha fatto scoprire la musica classica, leggeva la Divina Commedia in lingua originale. Così ho conosciuto Dante. In generale, mi piaceva l’idea di poter aiutare le persone.In questo momento in Italia, anche grazie a un recente servizio de Le Iene, si parla molto di un fenomeno che sta avvenendo in Russia, la Blue Whale, un’escalation di suicidi adolescenziali messi in atto per prendere parte a un gioco social…
Sono nato in una realtà povera dove spesso mancava il cibo. Non parlo di macchine, parlo proprio di cibo. Sopravvivere era molto dura. Nessuno dei miei amici, però, ha mai provato a suicidarsi. Facevamo cose stupide, certo, ma mai fino a questo punto. Credo che la Blue Whale sia una di quelle storture che possono sciaguratamente nascere nei grandi Paesi come la Russia o gli Stati Uniti. In generale, si tratta di un fenomeno legato alla mancanza di cultura. Non è una frase fatta o una risposta semplicistica: questi ragazzi hanno un buco nero dentro e non sanno come riempirlo.Tu non l’avevi, da adolescente?
La vita di strada ti inquadra, ti insegna come stare al mondo in modo onesto. Anche perché se non sei onesto, ti fanno a pezzi. Oggi sembra che nulla venga preso sul serio, i ragazzi bestemmiano e insultano le propri madri per scherzo, come fossero cose divertenti. Lo stesso bullismo è un’altra brutta espressione dei nostri tempi. Mi viene da pensare a quel povero ragazzo ammazzato di botte a Frosinone. La reazione morbida di società e giornalisti mi ha fatto inorridire. Nessuno si è soffermato sulla tragedia etica. Come fosse un episodio, dopotutto, accettabile. Una cosa che può capitare.Credi che il bullismo sia un’espressione dei “nostri” tempi? Ai tuoi non c’era?
Nel nostro Paese era praticamente impossibile essere bulli. C’era un pezzo di merda che ha indotto un ragazzo a suicidarsi perché si pensava fosse gay e probabilmente lo era. Con un mio amico abbiamo aspettato questo tizio sotto casa, di sera. Gli ho rotto gambe e braccia a bastonate. Da noi potevi provare a fare il bullo, certo. Solo che non duravi tanto.Nel 2014 hai twittato che “i gay in Russia sono trattati come in Italia”.
Di certo un tweet non basta per entrare nel merito della questione.Entriamoci.
Quel tweet in particolare faceva parte di un dibattito, estratto dal contesto può sicuramente suonare discutibile. Per quanto mi riguarda io sono per la libertà di espressione in tutte le sue forme fino al momento in cui non nuoce alla libertà di un altro individuo. Questo, però, è il mio parere personale. Per quanto riguarda la Russia, il discorso è più complesso.Perché?
La Russia ha vissuto gli ultimi 70 anni sotto la dittatura comunista che ha ucciso milioni di esseri umani. Tra le leggi di quel periodo c’era anche quella che limitava le libertà sessuali.Limitava?
Se eri omosessuale potevi prenderti fino a 14 anni di carcere e una volta lì, con il più completo assenso delle guardie, gli altri detenuti si prendevano la libertà di torturarti a loro piacimento.Oggi?
Oggi non è così. Tanto per cominciare, quella legge non esiste più. Attualmente ne vige un’altra che vieta la diffusione e la propaganda di materiali pornografici, sia di natura etero che omosessuale, ai minori di 14 anni. All’estero questa legge viene spesso travisata, la stampa tende a prendere i casi singoli per mostrare una situazione piuttosto lontana dalla realtà.Qual è la realtà?
Ti posso raccontare che già quando ero giovane e avevo ancora i capelli andavo sempre dallo stesso parrucchiere, Valdimir. Lui conviveva da 20 anni con il suo compagno e tuttora si amano. Nessuno gli ha mai torto un capello, né alcuna legge gli ha impedito di vivere la propria vita affettiva come meglio credesse. Certo, lui non è mai andato in giro per strada nudo con un uccello di gomma attaccato da qualche parte né si è messo ad organizzare manifestazioni che la Russia oggi non sarebbe pronta ad accettare.Come i gay pride?
Immaginare un gay pride in Russia non è possibile, ora come ora. C’è un terribile retaggio storico che è durato settant’anni, come ti dicevo, basato sul rifiuto e sulla paura. Verrà il tempo, di certo la Russia ha bisogno di compiere il proprio ciclo evolutivo ma non è questo il momento. Sarà un processo lungo, magari anche un secolo, ma di certo non può e non deve essere forzato. Semplicemente perché sarebbe controproducente. E lo è già stato.Quando?
Ad esempio quando Vladimir Luxuria va ai giochi olimpici di Sochi e provoca le guardie, è chiaro che queste lo arrestino. Il gesto in sé non aiuta perché lui si comporta da idiota e le due culture, nel frattempo, si allontanano. Ho amici gay che sono andati in Russia per organizzare una specie di gay pride. Uno di loro si chiama Christian, gli avevo fortemente sconsigliato di farlo. É partito lo stesso ed è tornato a casa con quaranta punti sulla testa. Mi ha detto: “Avevi ragione”. In Italia la situazione è diversa, sì, ma fino a un certo punto. Vivo a Milano e spesso sul tram sento dire: “Ah, guarda quel frocio!”. L’ignoranza non ha appartenenza geografica o politica, è ignoranza e basta. La si combatte con la cultura, non con gli uccelli di gomma.Siamo partiti dall’inferno. Ne abbiamo parlato a lungo. Cos’è per te, invece, la felicità?
La felicità è qualcosa che renderebbe la vita brutta.Brutta?
Sì, perché la felicità per definizione è breve e temporanea. È uno stato euforico, quasi sovrannaturale, labilissimo. Non la si può pretendere sempre, la vita non funziona in questo modo. Quello a cui tendo, personalmente, è la serenità.E sei sereno?
Sì.