TaccolaPedemontana, il fallimento annunciato del bidone d’oro

Da anni è un supplizio fatto di mancati soldi privati, prestiti ponte che tappano falle, promesse di finanziamenti che non si realizzano, manager che cambiano, scelte sciagurate su tariffe e servizi. Ora è arrivata dalla procura di Milano la richiesta di fallimento. Ora la palla è in mano a Maroni

Fabrizio Patti / Linkiesta.it

Chi nell’ottobre 2015, finiti i fasti dell’Expo, ha voluto compiere l’impresa di pagare l’autostrada Pedemontana lombarda, ha sperimentato l’ebbrezza di un viaggio nel tempo. Altro che la Berlino di Good Bye Lenin: il viaggio nel passato si poteva godere anche tra Lomazzo e Induno Olona. Il povero utente medio, che magari aveva imparato a pagare il parcheggio con un’app semplice e intuitiva, si trovava di fronte un’applicazione, quella della Pedemontana, che rimandava a un sito non responsive. Di più: un sito in cui mezzi di pagamento semplici come Paypal erano sconosciuti, in cui il layout stesso rendeva impossibile saldare il conto, costringendo a regolare il tutto dal pc di casa. Se poi fosse stato un pendolare e avesse voluto accedere al “Conto Targa”, un modo per registrare il proprio veicolo e non accedere all’infernale app ogni volta, avrebbe avuto il brivido di un salto indietro ancora maggiore, agli anni Cinquanta. Si trattava di dover stampare e firmare un plico con tre documenti autorizzativi (varie pagine e cinque firme), fotocopia del libretto di circolazione, fotocopia di patente, fotocopia del codice fiscale, fotocopia della carta di identità, delega di un eventuale terzo titolare dell’auto, il tutto da spedire via posta o consegnare in un Punto verde con orari di ufficio. Un paradosso comico, se si pensa che il meccanismo serviva a utilizzare il modernissimo sistema di pedaggio “free flow”, che non prevede caselli. Risultato: chiunque non avesse avuto un Telepass è corso a farselo installare, per evitare pianti greci.

Piccolo dettaglio: chi fosse entrato dall’autostrada Milano-Como (A8) e fosse andato appena sopra Varese, usando la nuova tangenzialina, avrebbe visto salire il conto, per l’andata e ritorno, da 3 a circa 11 euro, a fronte di un risparmio di tempo di una ventina di minuti che abbatteva il percorso da un’ora a 40 minuti. Un vero lusso, che magari una volta ogni tanto ci si può anche concedere, come il fast track in aeroporto o il taxi per tornare a casa senza usare la filovia a mezzanotte. Ma certo un salasso per i pendolari, che solo dopo mesi hanno avuto accesso a degli sconti fedeltà, sempre prorogati di tre mesi in tre mesi, ché del futur non c’è certezza. Linkiesta nel 2015 raccontò del boicottaggio dei comitati di cittadini, infuriati all’idea di pagare 60 centesimi per i 2 chilometri della tangenziale di Como, uno dei tre tratti realizzati dell’infrastruttura.

È partendo da questi piccoli dettagli, che spesso si perdono nelle denunce dei costi stratosferici dell’opera (circa 40 milioni di euro a chilometro, un vero bidone d’oro), che si spiegano alcuni dei flop più imbarazzanti della prima gestione della Pedemontana lombarda. Solo un paio di numeri, ripresi da Varesenews: il 20% dei viaggiatori non ha mai pagato, solo il 30% degli importi sollecitati è stato effettivamente recuperato. Recentemente sono stati ritrovati in un fosso a Rosate, nel milanese, 40 chili di lettere di solleciti. Sono solo una minima parte dei 450mila solleciti già inviati su 2 milioni (!). Molti dei destinatori sono cittadini svizzeri a cui non si può certo rimproverare di non averci capito niente nell’app italiana. La quale, tardivamente, ha da un paio di settimane avuto un restyling civile. Di personale, gestire tutta questa mole di solleciti, non ne manca: la Pedemontana conta 120 dipendenti (che pesavano per 8,4 milioni sul bilancio 2015), giusto il quadruplo della vicina Brebemi, anch’essa poco usata ma almeno conclusa senza anni di drammi come l’A36.

Il 20% dei viaggiatori non ha mai pagato il pedaggio, solo il 30% degli importi sollecitati è stato recuperato. Recentemente sono stati ritrovati in un fosso a Rosate, nel milanese, 40 chili di lettere di solleciti. Sono solo una minima parte dei 450mila solleciti già inviati su 2 milioni. Molti dei destinatori sono cittadini svizzeri a cui non si può certo rimproverare di non averci capito niente nell’app italiana

Il dato dei dipendenti da solo dice molto della qualità della gestione. I cui problemi sono noti da anni ma hanno avuto ora un nuovo punto di picco, che potrebbe essere definitivo: la richiesta di fallimento della società avanzata da parte della procura di Milano. I pm Paolo Filippini, Roberto Pellicano e Giovanni Polizzi sono andati giù durissimi, anche per quanto riguarda le carenze manageriali. Sia per «specifici fatti che hanno comportato appostazioni scorrette o mancanti, tali da non rendere veritiero il bilancio di esercizio 2015 (dal novembre 2016 c’è un’inchiesta per falso in bilancio, ndr)». Il consulente tecnico della procura, Roberto Pireddu, ha individuato diverse altre carenze: «nella difficoltà nella riscossione dei pedaggi, nell’incremento dei costi di bonifica» lungo la tratta B, fino al «calo del 50% e del 60% dei ricavi rispetto alle proiezioni contenute nel Piano economico e finanziario 2014». Oltre che su punti più sostanziosi, come la «mancata appostazione di un fondo rischi a compensazione del debito verso l’appaltatore Strabag, commisurato alle riserve formulate». Stiamo parlando di una causa, quella con Strabag (che aveva vinto l’appalto per la costruzione del secondo lotto) che da sola potrebbe mettere la parola fine al progetto di completamento dell’autostrada.

Ma il punto centrale della richiesta di fallimento, come di tutta la vicenda Pedemontana, sta in effetti nei numeri che segnano il fallimento del project financing in salsa lombarda. «La società – scrive la procura – ha redatto i bilanci a partire dal 2013 secondo il criterio di continuità aziendale di fatto insussistente», «a partire dal 2014 è in stato di insolvenza» e «non è ragionevolmente prevedibile la rivitalizzazione da parte di soggetti istituzionalmente deputati all’erogazione del credito». L’analisi dei bilanci (la procura si ferma al 2015) evidenzia uno «squilibrio finanziario della società che risulta sovraccaricata, almeno dal 2012, dal peso dell’indebitamento verso banche e fornitori» (150 milioni avuti da Serravalle, 200 milioni da banche). La società «ha sempre registrato perdite di esercizio».

Nel bilancio 2016, come ha evidenziato su Edilizia e Territorio (Gruppo Sole 24 Ore) da Massimiliano Carbonaro, la società di revisione Ria Grant Thornton ha detto che la continuità aziendale sussiste ancora, nonostante la perdita di 7,78 milioni. Tuttavia, se non si riuscisse a concretizzare il finanziamento senior del project financing da 2,2 miliardi di euro e la proroga del prestito ponte bis da 200 milioni in scadenza il 31 dicembre del 2018, verrebbe meno la continuità aziendale. Sembrerebbe quindi che uno spiraglio per andare avanti ci sia ancora.

Nei giorni scorsi la richiesta di fallimento di Autostrada Pedemontana Lombara da parte della Procura di Milano. La società sarebbe a partire dal 2014 in stato di insolvenza e non ne sarebbe ragionevolmente prevedibile la rivitalizzazione

Quello delle perdite sarebbe un problema minore, se si trattasse di un project financing normale. In un caso ideale il settore pubblico dovrebbe mettere una parte di soldi, un’altra parte dovrebbe venire dai privati, attirati dai ritorni futuri, e il resto da consistenti prestiti bancari. Il tutto si dovrebbe finanziare, magari dopo un periodo molto lungo, attraverso i pedaggi. Prendiamo invece Pedemontana Lombarda. Da anni leggere le cronache relative alle sue difficoltà economiche è diventato noiosisismo. Il punto è sempre quello: bisognerebbe arrivare a 536 milioni di capitale (equity), tra pubblico e privato, per far arrivare i veri finanziamenti bancari. Invece la cifra è ferma da anni a circa 300 milioni. Dai più recenti “atti aggiuntivi”, peraltro, la quota dell’equity è prevista salire a 800 milioni (650 milioni di equity e altri 150 milioni di prestito subordinato), le banche la vorrebbero di 1 miliardo di euro.

Ricordiamo che stiamo parlando di un’opera che costa poco più di 4 miliardi di euro, che con gli oneri finanziari arriva a 5 miliardi. Ebbene, questo equity non arriva mai, perché la Regione non ha risorse sufficienti. Il suo principale sforzo è stato comprare dall’ex Provincia di Milano la società Serravalle, che detiene il 78,97% della società; il resto è composto da Intesa Sanpaolo (13,37%), Unione banche italiane (3,34%), oltre che la Bau Holding Ag (0,32%), che è in pratica Strabag, ossia la società che ha avviato la causa contro Pedemontana stessa. Privati, a parte le partecipazioni già dette delle banche, non se ne vedono. Lo Stato può dire di aver già versato 900 milioni degli 1,2 miliardi che rappresentano il tetto ai contributi pubblici previsti. Il ministro delle Infrastrutture e Trasporti, Graziano Delrio, ha detto chiaramente che altre risorse il governo non le stanzierà.

Così questo project financing del tutto fittizio ha avuto bisogno di un paio di aiuti per fare quel minimo che è stato realizzato. La quota del pubblico, che per ogni tratto non avrebbe dovuto superare il 35% dei costi, per il primo tratto è stata dell’80 per cento. Altrimenti per l’Expo non si sarebbe fatto nulla. Un segnale chiarissimo che le difficoltà per i cantieri successivi sarebbero state praticamente insormontabili. Gli altri aiuti sono stati tanti: alla faccia di un costo che si dovrebbe ripagare con i pedaggi, la Regione Lombardia si è impegnata con centinaia di milioni di euro a garantire i mancati ritorni futuri dei pagamenti degli automobilisti. Anche lo Stato ha fatto del suo: nel 2015, ricorda Edilizia e Territorio, la Pedemontana riuscì a ottenere una defiscalizzazione per 389 milioni di euro. Alla fine del 2016, nel Patto per la Lombardia, il governatore Roberto Maroni e l’ex premier Matteo Renzi avevano previsto cifre miliardarie per la Pedemontana, poi trasformatesi nel topolino di un fondo di garanzia regionale da 450 milioni da parte della Regione Lombardia per rassicurare le banche.

Il project financing della Pedemontana lombarda è fittizio: i privati non si vedono, le banche si sono limitate a prestiti ponte e lo Stato ha già dato quasi tutto quello che poteva dare. È stata giocata anche la carta cinese, senza successo

Ma di strate per tenere in piedi la baracca, ne sono state annunciate a bizzeffe. Come quando il governo nel 2014 provò a infilare anche la Pedemontana nell’infornata che segnò l’ingresso di fondi sovrani cinesi in Enel, Cdp Reti e Saipem. Più di recente il mantra è diventato il Piano Juncker e Maroni ha ricordato la recente visita di Cdp e della Banca Europea degli Investimenti proprio per capire la bancabilità dell’opera.

La realtà, per ora, vede le recenti dimissioni di Antonio Di Pietro alla presidenza, dopo un anno non memorabile e un futuro quanto mai incerto. Tanto che la domanda da porsi è che fine farà la tratta esistente, in caso di fallimento della società Autostrada Pedemontana Lombarda. L’ente concedente, la CAL (Consorzio autostrade lombarte, al 50% della Regione Lombardia e Anas) potrebbe effettuare una gara aperta ai vari concessionari. L’opera in sé, va detto, è ben fatta. Ha un tracciato piuttosto lineare, con ampie gallerie ben illuminate, cavalcavia in acciaio di nuova generazione, ampi terrapieni ai lati, perfino una bella vista sulle montagne (e sui boschi che, hanno buon gioco a ricordare Legambiente e gli altri ambientalisti in questi giorni, sono stati distrutti per centinaia di ettari). Soprattutto c’è pochissimo traffico e questo è il vero – e solo – valore aggiunto per gli automobilisti che si concedono il lusso di percorrerla.

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