MigrantiRiforma del trattato di Dublino: è scontro tra Parlamento e Consiglio Ue

L’Europarlamento, seppure in ritardo, è vicino a un testo unico. Ma il Consiglio è pronto ad affossarlo: gli Stati del blocco di Visegrad rifiutano l’accoglienza. La relatrice Wikström: “L’Europa non è buffet in cui si sceglie solo quello che piace”

Le buone intenzioni del Parlamento europeo ci sarebbero tutte. Dopo mesi di negoziati e oltre 1.000 emendamenti, mentre gli sbarchi nel Canale di Sicilia continuano, si stanno trovando punti di convergenza da destra a sinistra per modificare (per la terza volta) il regolamento di Dublino sul diritto d’asilo. Ma la proposta di eliminare il criterio di fare domanda nel primo Paese d’ingresso dei migranti, introducendo un sistema di ricollocamento automatico, è destinata a scontrarsi con le resistenze degli Stati del gruppo di Visegrad appoggiati dall’Austria. «Non potete obbligarci ad accogliere i migranti», è la risposta. E l’umore degli eurodeputati nei corridoi di Bruxelles è tutt’altro che ottimista. «Il Consiglio vuole bloccare tutto».

A maggio 2016, la Commissione europea ha presentato al Parlamento una proposta poco ambiziosa rispetto ai proclami iniziali, senza inserire un vero e proprio sistema di redistribuzione. L’eurodeputata svedese Cecilia Wikström del gruppo Alde (Alleanza dei democratici e liberali per l’Europa) è stata nominata poi relatrice per la riforma e ha lavorato in Parlamento alla revisione della proposta della Commissione. A marzo il nuovo testo è stato sottoposto alla Commissione Libe (Libertà civili, giustizia e affari interni). E le modifiche, nel documento di circa un centinaio di pagine, sono radicali. Il controllo di ammissibilità delle domande di asilo nei Paesi di ingresso è stato eliminato: gli Stati di frontiera devono solo procedere alla identificazione. La Commissione proponeva inoltre di far partire il trasferimento negli altri Paesi Ue una volta raggiunto il 150% della capacità di accoglienza nei Paesi di arrivo: nel testo Wikström la soglia scende al 100 per cento. E laddove si proponeva il pagamento di multa di 250mila euro per ogni migrante che un Paese non vuole accogliere, il nuovo testo suggerisce invece di sospendere l’erogazione dei fondi strutturali europei. Introducendo però un periodo transitorio di di cinque anni ai Paesi con meno esperienza nell’accoglienza dei richiedenti asilo. Un modo per andare incontro al blocco di Visegrad, insomma.

Sul testo in Commissione Libe sono stati presentati ben 1.021 emendamenti. La previsione iniziale era quella di produrre un documento unico prima della pausa estiva, ma quasi sicuramente si slitterà a dopo le vacanze. E per avere un testo comune del Parlamento bisognerà aspettare fine anno. «Ma sul Parlamento sono fiduciosa», ha detto Cecilia Wikström nel corso di un seminario organizzato a Bruxelles sul progetto del diritto d’asilo comune. «Sono sicura che troveremo una posizione comune. I negoziati con il Consiglio, quindi con gli Stati membri, saranno la parte più difficile. È qui che ci saranno le maggiori difficoltà». Anche se, ammette, «non serve l’unanimità ma la maggioranza qualificata». La stessa con cui è passato l’accordo non rispettato sulle quote di ricollocamento nel settembre 2015. Senza dimenticare però che nel frattempo le elezioni in Polonia hanno portato alla vittoria il presidente conservatore Andrzej Duda, contrario al sistema delle quote, che sta valutando addirittura di indire un referendum sui rifugiati nel 2019.

Sul Parlamento sono fiduciosa. Sono sicura che troveremo una posizione comune. I negoziati con il Consiglio, quindi con gli Stati membri, saranno la parte più difficile. È qui che ci saranno le maggiori difficoltà


Cecilia Wikström

Il panorama non è dei più rosei. Ma «l’attuale sistema di Dublino non funziona», ripetono tutti. Lo dice il presidente dell’Europarlamento Antonio Tajani. E lo ripete pure il Commissario per le migrazioni Dimitris Avramopoulos: «Dublino è morto, anche se legalmente è ancora in vigore». Il regolamento non ha retto ai flussi del 2015. Italia e Grecia sono diventate un grande hotspot a cielo aperto. E con l’obbligo di fare domanda di asilo nel primo Paese d’ingresso, solo in Italia tra il 2015 e il 2016 sono state rispedite indietro da altri Stati 5.049 persone. Mentre il sistema di ricollocamento è naufragato con il rifiuto di molti Paesi di accogliere i imgranti.

Il punto su cui tutti concordano in Parlamento è la necessità della condivisione della responsabilità tra gli Stati membri. «La solidarietà condivisa sarà l’architettura del nuovo regolamento di Dublino», dice Wikström. «Non deve accadere che solo alcuni dei 28 Stati membri si assumano tutto l’onere dell’accoglienza. Stare in Europa non è come un buffet dove si sceglie di prendere solo quello che piace». E per far sì che il patto venga rispettato, il testo propone di sospendere l’erogazione dei fondi strutturali europei ai Paesi che rifiutano l’accoglienza. «Abbiamo eliminato la proposta della Commissione Ue di pagare 250mila euro a migrante perché mi sembrava poco etico attribuire un prezzo a ogni individuo», ha spiegato Wikström. E anche sulle conseguenze finanziarie per i Paesi indisciplinati c’è larga maggioranza. Ma, ammette l’eurodeputata, «per ballare il tango ci vogliono due persone». Tradotto: non si può legiferare senza il Consiglio. Peccato che al Consiglio si stia facendo melina. E la riforma del trattato di Dublino sta procedendo meno che a rilento, ferma ancora all’esame degli articoli della proposta della Commissione.

«L’atteggiamento del Consiglio è vergognoso», spiega Elly Schlein, eurodeputata italiana, relatrice ombra del gruppo dei Socialisti e democratici. «Chi fugge dalle persecuzioni fugge verso l’Europa, non verso un Paese in particolare. Adottare un meccanismo permanente e automatico di distribuzione delle responsabilità vuol dire semplicemente applicare gli articoli 78 e 80 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea». Il suo gruppo ha presentato 145 emendamenti al testo, proponendo anche la formula dell’accoglienza tramite la “sponsorizzazione” del richiedente asilo da parte di un familiare o di un’organizzazione sul modello canadese. Con una procedura velocizzata dell’esame delle domande di asilo che duri al massimo un mese.

Non deve accadere che solo alcuni dei 28 Stati membri si assumano tutto l’onere dell’accoglienza. Stare in Europa non è come un buffet dove si sceglie di prendere solo quello che piace


Cecilia Wikström

Per evitare poi quello che con una espressione infelice viene chiamato lo “shopping del rifugiato”, ovvero gli spostamenti secondari verso Paesi che hanno condizioni di accoglienza e assistenza favorevoli, l’obiettivo è anche quello di uniformare gli standard e le procedure. E pur sostenendo che i richiedenti asilo non hanno diritto di scegliere in quale Paese presentare la propria domanda, la proposta del Parlamento dà la possibilità di esprimere una preferenza (tra i sei Paesi membri che sono più lontani dal raggiungimento della quota stabilita). Spostando invece nello stesso Paese le famiglie e i gruppi (fino a trenta persone) che hanno viaggiato insieme e semplificando i ricongiungimenti familiari. I minori non accompagnati possono scegliere sempre in quale Paese fare richiesta. E tra le proposte c’è anche quella, forse problematica, di allargare la possibilità di ricongiungimento non solo con i genitori ma anche con altri parenti.

«Dando priorità alle riunificazioni familiari, scatta poi un meccanismo di assegnazione automatica tra i Paesi membri in base alle quote di accoglienza stabilite sulla base del Pil, popolazione e tasso di disoccupazione», spiega Laura Ferrara, Cinque stelle, relatrice ombra per il gruppo Efdd, contrario al periodo di transizione concesso ai Paesi “meno abituati” ai richiedenti asilo. Tra le proposte c’è quella di ridurlo da cinque a tre anni, mentre altri vorrebbero depennarlo del tutto. Anche l’obbligo del raggiungimento della soglia del 100% della capacità di accoglienza del Paese di arrivo prima di far partire i trasferimenti è stato ormai superato. I trasferimenti scatteranno da subito, senza aspettare che i centri di accoglienza siano saturi. «Non si tratta di solidarietà caritatevole, ma del rispetto dei trattati europei che impongono la condivisione delle responsabilità», dice Ferrara.

L’Italia, invece, come Paese di frontiera, dovrà occuparsi della identificazione di coloro che sbarcano. E come spiega Alessandra Mussolini, relatrice ombra per il Ppe, «sarà introdotto anche un “controllo sicurezza” sui precedenti penali di chi arriva prima di procedere al trasferimento negli altri Stati». Un ruolo di responsabilità per il nostro Paese, in passato molto largo nelle maglie dell’identificazione di coloro che preferivano non farlo per proseguire con il viaggio. Anche perché un emendamento prevede l’introduzione di sanzioni per gli Stati membri che non rispettano gli obblighi nel controllo delle frontiere.

L’accordo sui punti principali – ricollocamento automatico e sospensione dei fondi strutturali per chi non lo rispetta – c’è. Bisognerà limare ancora qualcosa, soprattutto sul fronte della definizione dei richiedenti asilo. I Cinque stelle vorrebbero includere anche i rifugiati ambientali, ma il Ppe non è d’accordo. «A Bruxelles i grillini sono di sinistra, non come in Italia», scherza Alessandra Mussolini. «Ma sono sicura che un accordo lo possiamo trovare». Poi si passerà alle discussioni con il Consiglio e la Commissione. Lo scoglio più grande sarà il Consiglio. «Gli Stati membri si stanno ingegnando a trovare soluzioni per far sì che la solidarietà non sia obbligatoria», denuncia Schlein, «mantenendo ancora il criterio ipocrita del primo Paese d’ingresso. C’è una distanza siderale».

Il Parlamento si muove in una direzione, il Consiglio in un’altra. Il testo di riforma potrebbe venire stravolto o addirittura affossato. Significherebbe che tutto il lavoro svolto da Wikström e dai relatori ombra è stato inutile, e il Parlamento si troverebbe a esaminare di nuovo una proposta di riforma opposta a quella attuale. «Non accetteremo soluzioni al ribasso», dice Jean Lambert, relatrice ombra inglese per il gruppo dei Verdi. «Il Paese d’ingresso non deve determinare il futuro dei richiedenti asilo. Ma ad oggi non conosciamo il risultato e non so dove andremo a finire».

Entra nel club, sostieni Linkiesta!

X

Linkiesta senza pubblicità, 25 euro/anno invece di 60 euro.

Iscriviti a Linkiesta Club