All’inizio del ’900, lo pensarono in tanti: qualcuno doveva raccontare le vite dei lavoratori. Le loro fatiche e lo sfruttamento imposto dai padroni, l’ansia di mantenere il lavoro e, al tempo stesso, sopravvivere al lavoro, sarebbero rimaste inespresse se non ci fosse stato un pugno di scrittori impegnati. Quelli che, oggi, vengono rubricati come “letteratura proletaria”. Un movimento dalle linee ideologiche chiare (cioè comunista), dai tratti letterari definiti (cioè raccontare le fatiche dei lavoratori), un obiettivo (cioè promuovere la rivoluzione). Va detto subito: se non avesse avuto un valore storico, diffondendosi dagli Usa all’Europa fino al Giappone, dal punto di vista estetico non andrebbe nemmeno presa in considerazione, tanto modesti sono stati i suoi risultati.
Se i lavoratori non avevano vita facile, in Giappone ebbero problemi anche gli scrittori che parlavano dei lavoratori. La letteratura proletaria giapponese nasce nella seconda metà degli anni ’10 del novecento. Erano autori-lavoratori, cioè raccontavano ciò che avevano vissuto in prima persona. Per farsi un’idea, si parla di Karoku Miyachi, con Tomizō il vagabondo (放浪者富蔵), vero e proprio capostipite del genere. Per la prima rivista letteraria ispirata al proletariato, però, si dovrà aspettare il 1921, quando Omi Komaki, insieme a Hirofumi Kaneko fondarono “I seminatori”, (種蒔く人), con l’ambizione non trascurabile di rivoluzionare sia la letteratura che la società (non si sa bene in quale ordine di preciso).
Era tutto bene avviato: in Giappone la letteratura proletaria conobbe anche una certa vivacità. Fu la prima a raccontare i drammi del terribile terremoto del 1923, per esempio, mentre dalle pagine del Fronte Letterario (文芸戦線) altra rivista fondata nel 1924, destinata diventare la più importante nel settore, verranno pubblicate opere di scrittori di qualità, come ad esempio Yoshiki Hayama (“La prostituta”).
Ma la letteratura, va ricordato, era solo il mezzo. Il fine vero era la rivoluzione. Gli scrittori proletari, metà artisti e metà agitatori politici, ricevevano direttive da Mosca che applicavano senza esitazione. Sia sui temi da pubblicare, sia sul modo migliore per diffondere le idee comuniste. Prima si associarono in una grande organizzazione di artisti e intellettuali proletari, la Napf (Nippona Artista Proleta Federacio), nel 1928. Poi – sempre su impulso del Profintern – lavorarono sulla democratizzazione delle organizzazioni letterarie, cioè andarono a creare circoli e gruppi di lettura tra gli operai e i contadini giapponesi.
È proprio in quel periodo che viene pubblicato forse l’unico capolavoro del genere, cioè Kanikosen pubblicato nel 1929, di Takiji Kobayashi, che descrive le vite difficili dei pescatori di granchi giapponesi. Delicato e durissimo al tempo stesso, susciterà un certo scalpore tra gli ambienti conservatori – e anche una reazione violentissima.
In Giappone, del resto, il partito comunista era considerato illegale fin dal 1922, anno della sua fondazione. Gli artisti delle organizzazioni proletarie erano visti con sospetto, a volte spiati e spesso presi di mira in attacchi e repressioni. Fare il rivoluzionario non era un mestiere facile (nemmeno negli Usa, per capirsi, erano così visti male). Le tensioni con le forze dell’ordine erano all’ordine del giorno. Soprattutto, nonostante il partito fosse escluso dalle competizioni elettorali, i comunisti non avevano rinunciato a intervenire nella vita pubblica, appoggiando partiti legali socialisti, più vicini alle istanze dei lavoratori e disposte ad appoggiarle.
Tutto questo non piaceva al governo. Il 15 marzo del 1929 marzo decisero di intervenire con una repressione durissima. Furono compiuti arresti di massa e in manette finirono moltissimi scrittori. Alcuni, come Takiji Kabayashi, vennero torturati a morte. Altri, invece, furono costretti a sconfessare in pubblico la propria adesione agli ideali comunisti. Finirà così, con pochi libri belli e tanti opuscoli ingialliti. E il Giappone, dalla struttura sociale rigidissima, resterà immune al fascino di Mosca.