Arrivederci, Renzi, ciao: il futuro della politica si chiama nostalgia (per la Democrazia Cristiana)

Il Nuovo è definitivamente morto. Per questo il vecchio, che è sempre rimasto tra di noi senza mai scappare, si rifà vivo. Tirato a lucido, si traveste da nuovo per impadronirsi della scena politica. Preparatevi

Il Nuovo è morto, viva il Nuovo. Da quattro decenni in Italia la contrapposizione tra nuovo e vecchio, innovatore e reazionario, riformismo e conservatorismo, è stata la chiave di lettura del dibattito politico. Di più: è stato il grimaldello per scalare il potere e arrivare a Palazzo Chigi. Da Craxi a Berlusconi, da Monti a Renzi mai nessuno che si sia dichiarato dalla parte sbagliata della barricata: tutti proiettati verso il futuro con le sue improcrastinabili riforme, tutti – inesorabilmente – arenatisi nel presente, nella “palude”.

Già perché – scrive il vicedirettore dell’Espresso Marco Damilano nel suo “Processo al Nuovo” appena uscito per Laterza – quella che è stata la “via italiana al governo e alla politica… ora appare smarrita per incapacità di elaborazione, fragilità culturale, inconsistenza progettuale”. L’ultimo giocattolo – quello del renzismo arrembante, lo storytelling del Rottamatore che Non Deve Chiedere Mai – si è rotto il 4 dicembre del 2016 con la sconfitta al referendum costituzionale. In mille pezzi. Lasciandosi dietro schegge acuminate: il ritorno (molto probabile) del proporzionale, la camicia di forza delle alleanze ob torto collo, lo spettro delle grandi coalizioni, la nostalgia che secondo Giuseppe de Rita adesso predomina tra i sentimenti politici (prevalendo persino sul rancore), e soprattutto un grande vuoto da riempire.

E adesso? Va detto che la suggestione del Nuovo è globale: i socialisti francesi, ridotti ai minimi termini alle ultime elezioni, hanno cambiato nome in Nouvelle Gauche. Poi ci sarebbe da capire se la categoria del Nuovo, oggi nel mondo, è rappresentato da Macron o da Trump. Ma in Italia? Dove insieme al maggioritario si è archiviata la novità di Renzi e persino Beppe Grillo, che a Palazzo Chigi ancora non ci è arrivato, lotta per non apparire invecchiato? L’unico leader che suscita speranza è davvero Papa Francesco, come appare dal recentissimo sondaggio di Ilvo Diamanti?

Niente paura. La Restaurazione non è dietro l’angolo. “Indietro nella storia non si torna – scrive Damilano – non sono tornate le monarchie e non torneranno gli antichi partiti”. Troppe caratteristiche mancano all’appello: la capacità di rappresentare, il radicamento sul territorio, l’organizzazione. Il rischio è piuttosto “un Nuovo diverso da quello che abbiamo visto all’opera in questi anni e più pericoloso”.

Cosa c’è, allora, dietro l’angolo? Da un lato, appunto, la nostalgia canaglia: Prodi che al tempo dell’Unione era il Facilitatore e adesso – sempre più difficile – il Vinavil con il compito di incollare i frammenti del gioco, salvo ritirarsi per l’immensità del compito; Berlusconi che annuncia serio che sta lavorando al nuovo programma elettorale, come se negli ultimi vent’anni non l’avesse reso noto urbi et orbi anche con l’aiuto della lavagna di Bruno Vespa; il ritrovato attivismo di D’Alema impegnato in un duello alla Highlander con Renzi. Dall’altro lato, invece, c’è tutto quello che si muove senza darsi ancora un nome. Ma, invece, un nome ce l’ha. Eccome.

Sui giornali di questi giorni si torna a parlare del né-di-destra-né-di-sinistra. Lo è il Movimento Cinquestelle, per asserzione di Grillo stesso, perché “è sopra e oltre”, e dunque no a leggi “liberticide” come quella contro l’apologia di fascismo e sì, eventualmente, al sostegno di Casa Pound. Si valuta caso per caso, posti-ideologici e liquidi, senza pregiudizi (apparentemente). E lo è, più sorprendentemente, un’esponente della nuova segreteria del Pd: Angela Marcianò, assessore “tecnico” della giunta Falcomatà a Reggio Calabria, priva di tessera del partito e propensa a votare le persone anziché i partiti. Posizione per carità legittima, ma bizzarra per chi fa parte del sancta sanctorum proprio di un partito, e di un partito il cui segretario si affanna a definire di sinistra rintuzzando ogni critica che arriva (dalla sua sinistra) in tal senso.

Posizione per carità legittima, ma bizzarra per chi fa parte del sancta sanctorum proprio di un partito, e di un partito il cui segretario si affanna a definire di sinistra rintuzzando ogni critica che arriva (dalla sua sinistra) in tal senso

E chissà se sanno che, quasi 35 anni fa, a occuparsi di questa distinzione fu Ciriaco De Mita che in un’intervista a Eugenio Scalfari su Repubblica dell’11 aprile 1983 osservava: “Destra e sinistra sono schemi mistificanti. Non ci si distingue più in quel modo. La vera dialettica è tra vecchio e nuovo”. Anche se le elezioni andarono male, l’allora potentissimo segretario della Dc aveva capito già tutto: la prima pietra del trasformismo che ha attraversato (e seppellito) Prima e Seconda Repubblica, veleggiando a tutta birra verso la Terza, è stata posta.

Oggi lo scaltro quasi novantenne irpino, recente antagonista di Renzi nel faccia a faccia televisivo sulle riforme (che, alla prova dei fatti o meglio delle urne, ha vinto), è protagonista di un’altra notizia forse marginale nel dibattito politico eppure significativa, oltre che suggestiva. È stato De Mita nei giorni scorsi a convocare a raccolta Marco Follini, Lorenzo Dellai e Angelino Alfano (non proprio virgulti dalla politica, ma comunque almeno un trentennio più giovani di lui) per la ricostruzione del Nuovo Centro. Da notare che Pier Ferdinando Casini non c’era, e chissà se si è offeso.

È la quadratura del cerchio. Il ritorno del centro, il “centrino” degli anni d’oro del bipolarismo, in salsa democristiana quattro punto zero. Nuovo però: pronto a riempirsi di contenuti, evocare riforme, solleticare l’emotività. Certo, anche i leader contano, e nel quartetto non se ne vedono, ma se Berlusconi sonda Calenda e Marchionne perché non possono farlo anche loro? In fondo, il ministro degli Esteri ha già trasformato il suo Nuovo Centrodestra (troppo caratterizzato) nel più neutro Area Popolare. E in Forza Italia la corrente che si oppone all’Opa ostile dei quarantenni Salvini-Meloni è proprio quella dei Popolari di Antonio Tajani. E infine, altro dato delle ultime ore, il gruppo misto alla Camera dei Deputati è diventata la terza compagine per numeri: si gonfia e si dilata, come in ogni fine di legislatura, spinto da scissioni e fratture, tirato dalle liste elettorali di prossima composizione. Un’eterogenea armata Brancaleone? Forse, ma pragmatica e post-ideologica ante-litteram.

In fondo, come ha spiegato proprio a Linkiesta Ernesto Galli Della Loggia, “l’Italia è un Paese immobile in cui tutti sono cambiati ma non lo possono dire perché la dimensione pubblica e politica è legata a dei totem”. Ovvero (quasi) tutti, dal fascismo in giù, hanno voltato gabbana raccontandosi però la favola della coerenza per poter “continuare a coltivare l’orto cavolaio dei propri interessi”.

E dunque, il Vecchio è diventato Nuovo. I dinosauri democristiani sono ancora tra noi, pronti ad approfittare del baratro lasciato dal Nuovo precocemente invecchiato. Panta rei, tutto scorre. Eppure, conclude il suo saggio Damilano, “l’Italia ha bisogno di una nuova politica per uscire da questo limbo senza riforme e senza partiti, senza destra e senza sinistra, senza vecchio e senza nuovo. Serve un Nuovo che dia ricostruzione, rigenerazione”. Vasto programma, direbbe qualcuno.

Come finirà non lo sappiamo. Ma ecco perché la dialettica tra il segretario Dem Matteo Renzi, ex Rottamatore fattosi zen, impegnato in un vorticoso cambio di portavoce, comunicatori e spin doctor per ritrovare la grinta, e il premier Paolo Gentiloni, felpato e apparentemente grigio, invece splendente postdemocristiano, si fa di giorno in giorno più interessante.

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