C’era un tempo (e c’è ancora) in cui a Milano bastavano 200 metri di strada per creare un brand che ha fatto storia. Nel decennio ’80-’90 su Corso Como andavano in scena gli ultimi atti della “Milano da bere”. Fra locali chic, concept store e ristoranti in cui fare la fila era prassi quotidina, aleggiava un’aura di benessere diffuso condito da un certo rampantismo arrivista e opulento. Un segno di quei ceti sociali emergenti che si fregiavano di una certa immagine “alla moda”. In superficie, dopo più di vent’anni, sembra tutto immutato. Almeno finché la gente che affolla i bar non si riversa in discoteca. Poi la scena cambia. E i lustrini da top class lasciano posto ai traffici più loschi.
Basta leggere le cronache cittadine. Cinque arresti per spaccio nell’ultima settimana effettuati dalla squadra mobile. Maxi controllo dei carabinieri una settimana prima che ha portato all’identificazione di un centinaio di persone, 25 di queste fotosegnalate di cui 10 riconosciute come protagoniste di due diverse aggressioni. Perché se lo spaccio c’è sempre stato ed è quasi fisiologico in un luogo votato al divertimento (anche sopra le righe), non può non balzare all’occhio una certa recrudescenza nell’attività criminale diffusasi negli ultimi due anni. La dinamica per lo più è sempre la stessa: prima lo spaccio, poi le aggressioni e gli scippi per arrotondare il bottino. Spesso ai danni dei clienti usciti dalla discoteca che avevano precedentemente avvicinato i pusher, in maggioranza di provenienza africana. Basta trovare la vittima giusta: una persona isolata, poco lucida. Come avvenuto lo scorso 19 luglio quando un ventenne italiano è stato aggredito da tre nordafricani a suon di calci, pugni, spranghe e una chiave inglese. A interrompere il pestaggio è stato l’intervento dei carabinieri. Tutto per uno smartphone.
«Su come si sia arrivati a questo punto le tesi si sprecano. Ma il filo conduttore è sempre lo stesso: Corso Como non è più quel luogo esclusivo in cui movida e stile convivono»
Su come si sia arrivati a questo punto le tesi si sprecano. Ma il filo conduttore è sempre lo stesso: Corso Como non è più quel luogo esclusivo in cui movida e stile convivono. «Quando mi sono trasferita qui con la mia famiglia, Corso Como era una strada anonima con palazzi ancora da restaurare dopo le vicende belliche della Seconda Guerra Mondiale», racconta Rosy residente al civico 12 dal 1963. «Allora iniziavano a nascere i primi negozi, come il Tecnoelettrica Comoretto ancora aperto e dove puoi trovarci di tutto: dalla lampadina al fusibile. Poi, 20 anni fa, l’inizio della trasformazione», continua Rosy. La discoteca Hollywood, punto d’incontro di numerosi vip, perdeva smalto mentre iniziavano i lavori per la riqualificazione della zona Garibaldi e di piazza XXV Aprile (dove al posto dell’ex teatro Smeraldo ora sorge Eataly) che ora contendono la clientela ai locali di Corso Como. «La gente selezionata che c’era allora ha cominciato a diradarsi», conclude Rosy. E nel contempo un turnover sempre più spinto ha dato nuova linfa e meno stabilità ai negozi che punteggiano la via.
Il caso più eclatante è quello del 10 Corso Como. Storico concept store di proprietà della famiglia Suzzani, il 10 è recentemento passato di mano per 30 milioni di euro allontanando il rischio chiusura. I nuovi proprietari, l’imprenditore Tiziano Sgarbi e la stilista Simona Barberi, hanno già assicurato che non stravolgeranno la natura del negozio-museo. Anzi, puntano a ricavare anche uno spazio dedicato alla ricerca e allo studio di nuovi tessuti. Basta? «I negozi storici dovrebbero essere maggiormente tutelati», commenta Alessandro Prisco, presidente Assoduomo. «Purtroppo i criteri per assegnare questo riconoscimento si sono allargati troppo e il rischio è che ci perda il brand generale», conclude Prisco. «La passeggiata pedonale non ha cambiato la sua vocazione, ma certo si rischia un impoverimento», gli fa eco Andrea Painini, presidente Confesercenti Milano. Il rischio? «Che si appiccichi a Corso Como l’etichetta di posto mal frequentato. Una nomea che allontana i clienti delle varie attività».
«Penso si tratti di fenomeni che vanno e vengono», afferma l’assessore al Commercio di Milano, Cristina Tajani che ricorda come su Corso Como trovino spazio moltissimi esercizi dedicati alla moda e al lusso. «Certo, laddove si concentra una maggiore vita notturna c’è maggiore probabilità che si sviluppino certi fenomeni illeciti», ammette l’assessore. Soprattutto per quanto riguarda la tendenza ad aprire sempre maggiori esercizi dediti alla somministrazione. Un trend che caratterizza altre zone della città e su cui, dopo l’introduzione della legge Monti, il Comune non ha controllo diretto. D’altro canto, il problema non è del bar in sé e per sé. Se c’è lo spaccio è perché, prima di tutto, c’è la domanda. La questione, sembra quindi ricadere su quell’aurea di esclusività che sembra esser venuta meno. Un fenomeno che ha aperto e in un certo senso democratizzato la frequentazione di Corso Como rischiando di banalizzarla (e ogni riferimento all’apertura del nuovo negozio di Chiara Ferragni non è casuale).
«Forse come commercianti dovremmo cercare di ravvivare i nuovi spazi», fanno sapere dal ristorante Alle cucina delle Langhe. Un luogo dove, secondo le classiche leggende metropolitane, anche una star e bellezza internazionale come Catherine Zeta Jones non ha trovato un tavolo durante la settimana della moda. «E poi bisogna sapersi adeguare: qui sono stati i locali a dare impulso al brand Corso Como a trasformalo in una zona esclusiva. Sono i negozi che portano qui certi clienti. Non il contrario». Detto altrimenti, con le parole del Presidente Painini, «bisogna chiudere i cancelli prima che i tori scappino». Alla faccia della gentrification e sperando che questo faccia da filtro a un criminalità che in molti sperano non trovi più il proprio mercato.