Non tutti i miliardi del debito sono uguali. Abbiamo passato settimane a sentir dibattere se la spending review sia stata vera o no (e la risposta è no, perché i tagli sono stati compensati da nuove spese, come ha spiegato bene Roberto Perotti). Abbiamo cercato di capire se il falò di miliardi pubblici per le banche venete sarà almeno in parte recuperato dalla Sga (in questo caso la risposta è probabilmente no, con stime come quella di Fidentiis che preconizzano un conto per i contribuenti da 5,4 a 15 miliardi di euro). Abbiamo, più in generale, perso un mare di tempo a parlare di auto blu e di altri interventi molto più simbolici che di sostanza, mentre il debito toccava il suo massimo storico. Ma, curiosamente, del salasso che ancora oggi provocano le perdite sui derivati sottoscritti dallo Stato non si parla. Dopo il picco di attenzione tra il 2012 e il 2013 non ne parlano più i telegiornali, non si fanno campagne. Gli articoli ci sono ma rimangono nelle pagine interne di economia, se si escludono la serie di inchieste di Luca Piana su L’Espresso e l’approfondimento del 18 giugno del Sole 24 Ore, che con Morya Longo ha cercato di capire perché l’Italia perda una somma incomparabilmente più alta degli alti Paesi europei alla voce derivati.
Di che cifre stiamo parlando? Nel solo 2016 di un impatto sul bilancio pubblico di oltre 8,3 miliardi di euro. Gli esborsi ammontano a 4,25 miliardi ma la cifra raddoppia se, come fa Eurostat, si sommano i flussi netti di interessi sui derivati con il debito contabile. Tra il 2013 e il 2016 l’effetto accumulato è di 24 miliardi (13,7 per i soli esborsi), che salgono a 32 se si risale al 2011. Fa notare Longo che dal 2013 al 2016 la politica monetaria di Mario Draghi ha permesso alle nostre casse pubbliche un risparmio cumulato in termini di interessi di 24 miliardi. L’effetto Draghi si è accentuato dalla partenza del Quantitative easing ma la sostanza è chiara: «Il sollievo che la Bce ci ha donato, insomma, i derivati ce l’hanno tolto». Era una profezia che, d’altra parte, era stato facile annunciare su Linkiesta.
C’è un piccolo problema, tuttavia: il Qe è destinato a esaurirsi, probabilmente nel 2018 vista l’accelerazione dell’economia nell’Eurozona. I derivati invece resteranno a lungo. Solo per gli anni 2017-2020 l’ultimo Def ha calcolato una spesa di 15,2 miliardi, di cui ben 5,1 nel 2018. Piana nel libro “La Voragine”, ha stimato che tra il 2016 e il 2021 le perdite saranno di 24 miliardi. Un’enormità, qualcosa come tre ponti sullo Stretto. Ma i contratti potrebbero durare molto di più. In un caso di “cross currency swap” sottoscritto nel 1999 era previsto che una banca potesse esercitare un’opzione per estendere il contratto fino al 2039. Addirittura, dopo una rinegoziazione del 2003, la scadenza ultima slitterebbe al 2058. È il problema delle rinegoziazioni: abbassano la spesa nel breve periodo ma spostano il rischio su altre poste o su tempi più lunghi.
Il problema è che i derivati resteranno a lungo. Solo per gli anni 2017-2020 l’ultimo Def ha calcolato una spesa di 15,2 miliardi, di cui ben 5,1 miliardi nel 2018
Perché oggi paghiamo così tanto, mentre altri Paesi europei perdono pochissimo, come Germania (852 milioni nel 2016), Francia (54 milioni) o addirittura ci guadagnano come l’Olanda (6 miliardi, 11 nei soli ultimi due anni)? Perché il nostro portafoglio di derivati è composto soprattutto da payer swap, sottoscritti negli anni passati: lo Stato paga a una banca d’affari un tasso fisso a lunga scadenza e in cambio incassa dalla stessa banca d’affari un tasso variabile a breve scadenza. Poteva andare bene quando i tassi crescevano, vista l’instabilità economica di cui l’Italia ha sofferto a lungo. Quando invece i tassi scendono, come è successo negli ultimi anni, si generano le perdite.
Si potrebbe dire che prima degli interventi di Mario Draghi alla Bce era impossibile prevedere l’evoluzione dei tassi al ribasso ed era razionale coprirsi dal rischio di rialzi di tassi (e infatti per anni coi derivati abbiamo guadagnato). Il problema, tuttavia, è nei dettagli, che in questi casi sono sostanza. Così l’Italia ha sottoscritto, oltre alle formule più tradizionali per tutelarsi dal rialzo dei tassi, anche delle opzioni più speculative che le si sono ritorte contro. Una di queste è una “swaption” collegata all’Interest Rate Swap a 30 anni da 3 miliardi e stipulata nel 2004 con Morgan Stanley. Il Tesoro, ha ricostruito l’Espresso nelle scorse settimane, vende un’opzione che permetterà alla banca di decidere se l’anno successivo sottoscrivere o meno un nuovo contratto swap, legato all’andamento dei tassi. In forza di questa rinegoziazione, lo Stato incassa 47 milioni di euro da Morgan Stanley. Nel 2005 la banca attiva effettivamente lo swap e lì inizia una scommessa: lo Stato avrebbe pagato interessi a un tasso fisso del 4,9% su un ammontare di 3 miliardi di euro. La banca usa come prestito di riferimento un tasso variabile, il Libor a sei mesi. Succede che il tasso Libor si abbassa sempre di più e nel 2011, quando la banca decide di estingere lo swap, lo Stato dovrà pagare 1,18 miliardi di dollari.
Il caso di vantaggio più clamoroso lasciato per scarsa accortezza ai privati riguarda sempre Morgan Stanley e ha origine nel 1994. Allora direttore del Tesoro era lo stesso Draghi. L’istituto statunitense si era assicurato la possibilità di estinguere tutti i contratti di derivati nel caso il valore della propria esposizione verso lo Stato avesse oltrepassato un limite, variabile da 50 a 150 milioni a seconda del rating dello Stato italiano. Questa soglia viene superata poco dopo ma la banca aspetta a esercitare la clausola nel 2011, quando i contratti attivi sono 19. Il governo è nel pieno della tempesta sullo spread e non ha la forza di opporsi. Risultato: un incasso di 3,1 miliardi per l’istituto americano.
Una vicenda su cui ha deciso qualche mese fa di muoversi anche la procura della Corte dei Conti del Lazio. Con una mossa che non ha precedenti, ha citato una banca d’affari internazionale per danno erariale. Morgan Stanley secondo l‘accusa sarebbe responsabile del 70% di un danno da 3,9 miliardi. Il motivo? In soldoni l’istituto avrebbe dovuto consigliare lo Stato, mentre nel 2011, estinguendo tutti i contratti «ha commesso palesi violazioni dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione contrattuale». Perché? Perché era in una posizione particolare, quella di “specialist”: si tratta delle banche che assistono il governo nelle aste dei titoli di Stato e che in quel ruolo devono contribuire alla gestione del debito pubblico anche attraverso un’attività di consulenza e ricerca. La banca giustifica la sua scelta con la salita record dello spread nel 2011.
Qualche mese fa ha deciso di muoversi la procura della Corte dei Conti del Lazio. Con una mossa che non ha precedenti ha citato per danno erariale Morgan Stanley La banca sarebbe responsabile del 70% di un danno da 3,9 miliardi. Il motivo? Avrebbe dovuto consigliare il Tesoro su come gestire il debito nel tempo, non approfittare del momento più opportuno per incassare il massimo possibile
Ancora più rivoluzionaria la richiesta del 30% di danni, ossia oltre un miliardo, ai dirigenti del Tesoro che per anni non si accorsero di tale clausola: Maria Cannata, tuttora direttore del dipartimento del debito pubblico del Tesoro, il suo predecessore Vincenzo La Via e gli ex direttori del Tesoro Domenico Siniscalco, poi passato alla stessa Morgan Stanley, e Vittorio Grilli, ora a Jp Morgan. L‘accusa è che alcuni contratti di derivati evidenziavano “profili speculativi” che non li rendevano idonei alla finalità di ristrutturazione del debito, ossia l’unica finalità ammessa dalla normativa vigente. Né sarebbero state attivate adeguate garanzie. La prima udienza del processo si terrà nell’aprile 2018 e spetterà a un collegio di magistrati verificare la fondatezza delle accuse.
Di cose di cui parlare con più risalto ce ne sarebbero quindi molte. Come il ruolo attualmente esercitato nelle stanze del Mef dai soggetti sotto indagine da parte della Corte dei Conti, da Maria Cannata a Morgan Stanley, che rimane una delle banche “specialist” che si fanno carico di acquistare almeno il 3% dei titoli collocati in asta dal Tesoro. Al momento l’iniziativa più rumorosa è stata la richiesta dei dettagli dei contratti contestati, avanzata dalla deputata M5s Carla Ruocco al ministro Padoan, che in Parlamento ha risposto picche a causa di clausole di riservatezza esistenti. Ha però aggiunto che a fine 2016 il valore di mercato complessivo dei derivati in mano allo Stato è negativo per 37,8 miliardi di euro. Altre interrogazioni sono arrivate da Giovanni Paglia (Si) e Renato Brunetta (Forza Italia), in passato a tenere alta l’attenzione è stato Daniele Capezzone, ex commissione finanze della Camera.
La vicenda dei derivati rimarrà a lungo lo specchio di una inadeguatezza dei tecnici dei ministeri (questo sostiene la Corte dei Conti, che parla di deferenza verso le banche e di negligenza) di fronte a strumenti molto complessi. Ma anche come l’emblema di quanto si sottovalutino i rischi futuri. Considerando il valore delle garanzie che lo Stato ha messo in questi mesi su mille capitoli, tra cui le Gacs per le tranche senior degli Npl di diverse banche italiane, sarebbe il caso di fare molta attenzione a quelle che oggi appaiono solo tecnicalità.
La vicenda dei derivati rimarrà a lungo lo specchio di una inadeguatezza dei tecnici dei ministeri (questo sostiene la Corte dei Conti, che parla di deferenza verso le banche e di negligenza) di fronte a strumenti molto complessi. Ma anche come l’emblema di quanto si sottovalutino i rischi futuri