Gentiloni non ti montare la testa, o rischi di finire come Dini e Monti

In passato è andata male: premier di fine legislatura che avevano ceduto alle lusinghe del Palazzo credendo di avere in mano il Paese. Anche l'attuale capo del Governo sta subendo crescenti pressioni per assumere un ruolo più politico. Per ora resiste

C’è solo un rischio, per Paolo Gentiloni: che questa sua centralità politica guadagnata dopo il trasloco di Matteo Renzi da Palazzo Chigi gli prenda la testa. Perché l’Italia che ancora si interessa di cose di palazzo ha raggiunto la sua classica fase di innamoramento dell’uomo pacato, pragmatico e incline alla mediazione. Una specie di tregua olimpica nel mezzo di una guerra fra bande. Accade quasi sempre, in Italia, nell’ultimo scorcio delle legislature più inquiete. Quando i leader politici che ambiscono a un nuovo giro sono impegnati a far dimenticare gli azzardi del passato e a trattare, lontano dal pubblico, il proprio futuro. Sulla scena restano personaggi come l’attuale presidente del Consiglio, che ha restituito serenità al dibattito politico e sta gestendo il suo ruolo rammendando gli strappi e cercando di mettere al riparo le istituzioni dalle brame elettorali. Il Partito Democratico guarda a Gentiloni come l’anti-Renzi nella prossima legislatura. Anche Silvio Berlusconi esprime pubblicamente stima nei suoi confronti, come fanno del resto le cancellerie internazionali impegnate ad arginare la retorica anti-europeista. C’è un problema, però: quelli che in passato, come Gentiloni, si sono ritrovati a raccogliere tanti spudorati complimenti hanno poi finito per crederci troppo. Andandosi a schiantare. E dimenticandosi che i crediti raccolti nei palazzi non corrispondono quasi mai ai voti raccolti nelle urne. Occorre ricordarsi due nomi su tutti: Lamberto Dini e Mario Monti.

La parabola di Gentiloni è diversa da quella di Dini e di Monti. Ma come Dini e Monti, anche Gentiloni ha iniziato in queste settimane a essere accerchiato dalle lusinghe della politica. Per ora la differenza – non da poco – è che Gentiloni non vi ha ceduto, come invece hanno fatto i due suoi predecessori. Il primo era ministro del Tesoro di Silvio Berlusconi, nel primo breve governo di centrodestra del 1994, quando venne chiamato a prenderne il posto, anche per realizzare una delicata riforma delle pensioni. Quello di Dini fu un esecutivo tecnico, che poggiava su una maggioranza diversa da quella che era uscita vittoriosa dalle urne: la Lega aggiunse i suoi voti a quelli dello schieramento progressista, allora guidato dal Pds. Un governo “riformista”, diceva l’allora presidente del Consiglio prestato alla politica da pochi mesi, dopo una lunga carriera nel Fondo Monetario Internazionale e alla Banca d’Italia. Già una base programmatica, un anno più tardi, per decidere di rompere gli indugi. Dini si sarebbe candidato alle elezioni Politiche del 1996 nell’ambito del centrosinistra ma soprattuto con una sua lista: la Lista Dini-Rinnovamento Italiano. Le cronache di allora raccontano di un capo del Governo determinato a sfruttare la sua breve esperienza di governo anche a livello mediatico: cercando di mettere da parte l’immagine di grigio burocrate, Dini iniziò a presentarsi in pubblico al braccio della moglie Donatella come una first family all’americana e venne sorpreso dalla lacrime a Porta a Porta, ascoltando una canzone di Ornella Vanoni. C’era persino chi ipotizzava di vederlo ancora a Palazzo Chigi dopo le elezioni, nonostante il candidato premier dell’Ulivo fosse Romano Prodi. Finì che Rinnovamento Italiano raccolse appena il 4,34%: Dini diventò il ministro degli Esteri del professore di Bologna, ma a costo di una progressiva marginalizzazione politica.

Il Partito Democratico guarda a Gentiloni come l’anti-Renzi nella prossima legislatura. Anche Silvio Berlusconi esprime pubblicamente stima nei suoi confronti, come fanno del resto le cancellerie internazionali impegnate ad arginare la retorica anti-europeista. C’è un problema, però: quelli che in passato, come Gentiloni, si sono ritrovati a raccogliere tanti spudorati complimenti hanno poi finito per crederci troppo. Andandosi a schiantare

Con Monti è andata quasi allo stesso modo, anche se il contesto politico era più in crisi di quello in cui si era lanciato Dini. Chiamato a prendere il posto (anche lui) di Berlusconi a Palazzo Chigi, nel 2011, Monti ha messo in piedi un nuovo Governo tecnico con l’appoggio di tutte le principali forze politiche, dal Pdl al Pd. Una missione lacrime e sangue, dettata dalle pressioni internazionali per riordinare i conti e mettere sotto controllo il debito pubblico. La stagione dei professori è stata salutata subito come una ventata di pragmatismo in un Paese abituato alle scorribande dei partiti. L’allora capo del Governo, come Dini prestato alla politica dopo una carriera di studioso interrotta solo dall’esperienza di commissario europeo, era osannato come un salvatore della patria. Il più leale alleato era il Pd di Pierluigi Bersani. Ma lo stesso Berlusconi offriva (invano) a Monti la guida di uno schieramento moderato. Al culmine delle lusinghe, l’attività riformista del Governo lasciò il campo alla decisione di Monti di candidarsi in prima persona alle elezioni Politiche del 2013, pochi mesi prima della scadenza della legislatura. Il ‘Rinnovamento Italiano’ di Monti si chiamò Scelta civica, una lista che ambiva a riportare merito e sobrietà nella politica italiana. Anche il professore milanese immaginava, come Dini, un ruolo di primo piano anche dopo le elezioni. In tv non pianse ascoltando la Vanoni, ma andò in onda alle Invasioni Barbariche con un cucciolo di cane in braccio. Scelta Civica finì per prendere l’8,3%. E anche Monti, come Dini, ha pagato la sua mossa con una progressiva marginalizzazione politica, mancando persino il trofeo più ambito: la presidenza della Repubblica.

Ecco, dunque, il rischio principale per Gentiloni. Una sindrome dell’uomo della Provvidenza. La recente storia italiana racconta di innamoramenti tanto rapidi quanto facili da dimenticare. La figura dell’attuale presidente del Consiglio lascia comunque pensare a una sostanziale differenza con quelle di Dini e di Monti. Gentiloni arriva da una scuola politica che gli altri due non avevano avuto. Si è messo al servizio nel momento di maggiore difficoltà del suo partito, non ha bisogno di inventarsene un altro. E conosce tutti i rischi di avventure solitarie che, in Italia, premiano solo i più spregiudicati. Per di più al Quirinale c’è Sergio Mattarella, non presidenti ingombranti come Oscar Luigi Scalfaro e Giorgio Napolitano. Starà però ovviamente a lui decidere se cedere alle lusinghe o conservare il suo ruolo di mediatore. Alle elezioni Politiche mancano ormai pochissimi mesi.

@ilbrontolo

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