Povero Diego Urbisaglia.
Non bastava la tempesta di insulti social. Ironia del destino, adesso che lo hanno espulso dal PD, il consigliere comunale e provinciale di Ancona rischia pure di finire disoccupato, proprio come l’ex carabiniere Mario Placanica qualche anno dopo i fatti di Genova.
E tutto questo solo per essersi comportato da Italiano Vero.
Con l’approccio neutro e rigoroso proprio del filologo infatti, addentriamoci nell’analisi del controverso post scritto dal consigliere in occasione dell’anniversario dei fatti di Piazza Alimonda.
“Estate 2001… ho portato le pizze tutta l’estate…”.
L’esordio è subito rivelatore. L’estate italiana, quelle delle notti magiche a inseguire il gol, e la pizza, simbolo italiano nel mondo per eccellenza. L’Urbisaglia tradisce subito un raro gusto iconoclasta, e fin da queste prime righe pare di sentire, in sottofondo, la chitarra di Toto Cutugno in Lasciatemi Cantare. Continuiamo.
“… per aiutare i miei a pagarmi l’Università e per una vacanza che avrei fatto a Settembre…”.
Il riferimento al cibo non poteva essere seguito che dal valore italiano per antonomasia: la famiglia.
Per il giovane Urbisaglia, cuor di figliolo, l’interregno tra liceo e Università, notoriamente dedicato al cazzeggio, è invece denso di sacrifici. Altro che mare e fanciulle: tra pummarola e mozzarella di bufala, l’Urbisaglia si spezza la schiena per dare una mano ai suoi genitori.
In questo passaggio si osserva, però, anche un’altra caratteristica del costume italiano di questi anni, la cosiddetta retorica della excusatio non petita. Non si può dire, pubblicamente, “quella sera che mi presi una birra”.
Al contrario, si deve dire per forza “quella sera che stremato dopo aver lavorato fino a svenire investii i miei pochi risparmi per una birra italiana in modo da supportare il sistema Paese”. Si deve, insomma, iniettare una robusta dose di retorica nazional-pauperista dentro ogni sillaba del discorso pubblico, per compiacere un ipotetico Uomo della Strada sempre in ascolto. Fare in modo di apparire più grillini dei grillini, pena condanna alla pubblica gogna.
Cibo, famiglia, il tutto fritto nel burro della retorica. Cosa manca per rendere il post un capolavoro di italianità?
“…guardavo quelle immagini e dentro di me tra Carlo Giuliani con un estintore in mano e un mio coetaneo in servizio parteggiavo per quest’ultimo…”.
Ma certo, il tifo da stadio, la forza che, in Italia, “move il cielo e le altre stelle”.
Mazzola o Rivera, Baggio o Del Piero, Giuliani o Placanica. I due ragazzi, mandati allo sbaraglio nell’inferno di Genova, diventano – per l’Urbisaglia del 2001 – due bandiere, due gagliardetti per cui “parteggiare” come fosse un derby tra contradaioli da godersi al bar. Lo erano nel 2001 e lo sono ancora “oggi nel 2017 che sono padre”, quando l’ex cuor di figliolo divenuto cuor di papà, augura a suo figlio, casomai si ritrovasse chiuso nella camionetta, non di prendersela con la sciaguratezza dei suoi superiori ma di prendere bene la mira e – magari dopo aver cantato “se passate di qui vi facciamo un culo così” – sparare in testa a un altro figlio.
Cibo, famiglia, tifo. La Genova che il post di Urbisaglia restituisce è una realtà deformata da un grottesco prisma tricolore, un prisma che impedisce di guardare criticamente ai fatti e di rendersi conto della gigantesca differenza tra “le due squadre in campo”: mentre Giuliani, con l’estintore, rappresentava se stesso e la sua rabbia, Placanica, con la pistola, rappresentava lo Stato e di conseguenza tutti noi.
Un prisma ideologico che Urbisaglia, tuttavia, non è sicuramente il primo e il solo ad utilizzare.
Per la destra all’italiana – cui il post dell’Urbisaglia si iscrive di diritto – Genova è il sogno proibito, l’Eldorado dove potere giudiziario, esecutivo e legislativo coincidono nel manganello. Le cose, però, non vanno meglio da sinistra, dove Genova viene vista come una specie di Annunciazione, di precognizione mistica, la prova provata che i rivoluzionari in kefiah di allora– oggi tutti borghesi in maniche di camicia– avevano capito tutto, nonostante la realtà abbia dimostrato, spietatamente, l’esatto contrario
Genova, come quasi tutta la Storia italiana dal venticinque Aprile in poi, ha smesso da un pezzo di essere elaborata e raccontata criticamente per diventare il nuovo terreno di scontro di una contrapposizione vecchia più di mezzo secolo.
Per la destra all’italiana – cui il post dell’Urbisaglia si iscrive di diritto – Genova è il sogno proibito, l’Eldorado dove potere giudiziario, esecutivo e legislativo coincidono nel manganello e contro chi sbaglia non si istituiscono processi ma “si prende bene la mira”.
A niente valgono le approfondite spiegazioni uscite in questi anni: Genova, vista da destra, segna l’alba di quella cultura della solidarietà a prescindere alle forze dell’ordine che, negli anni seguenti, avrebbe alimentato il brodo culturale da cui si sarebbero abbeverati gli esecutori dei delitti Cucchi, Sandri, Aldrovandi eccetera; ma anche l’inizio del contagio main-stream di quella cultura dell’intolleranza un tempo esclusiva di residuali forze estremiste che ora, integrata e tollerata, occupa un posto di primo piano nel discorso pubblico, tracima in continuazione a sinistra e, stando agli ultimi sondaggi, finirà presto al governo.
Le cose, però, non vanno meglio da sinistra, dove Genova viene vista come una specie di Annunciazione, di precognizione mistica, la prova provata che i rivoluzionari in kefiah di allora– oggi tutti borghesi in maniche di camicia– avevano capito tutto, nonostante la realtà abbia dimostrato, spietatamente, l’esatto contrario.
La globalizzazione non sarebbe andata, come predicavano i terzomondisti, ad aumentare la forbice tra mondo-sviluppato e mondo non-sviluppato (che esiste, più o meno, dalla colonizzazione delle Americhe in poi); ma avrebbe fatto crollare il nostro mondo, il nostro sistema economico e produttivo.Paradossalmente, invece nazioni che 15 anni fa lottavano ancora contro la fame hanno conosciuto fasi di intenso sviluppo grazie alla globalizzazione, mentre nazioni come la nostra hanno visto precipitare gli indicatori economici, con gli effetti che tutti conosciamo. Non c’era insomma, da preoccuparsi (solo) per gli altri: c’era, soprattutto, da preoccuparsi per noi e per la nostra classe media – di cui l’allora movimento “no-global”, pur facendone parte, se ne fregava altamente.
Una lettura critica di Genova, da entrambe le parti, non avrebbe portato altro che benefici.
Avremmo avuto prima una legge sulla tortura e, magari, una destra più presentabile (o semplicemente, una destra); dall’altra parte, avremmo avuto una sinistra pronta a raccogliere davvero le sfide del mondo globalizzato del ventunesimo secolo, invece che intenta a inseguire la destra fino a farsi copia o a sfogliare, seduta in poltrona, l’album dei ricordi del Novecento.
Ma come in altre fasi della Storia, come dopo la Resistenza o il Sessantotto, abbiamo preferito fare all’italiana. Come Urbisaglia, ci trastulliamo felici con il nostro prisma tricolore, contenti delle nostre piccole certezze, della pasta al dente e della moviola in TV, continuando a rimandare il momento in cui, una volta per tutte, faremo i conti con il Presente.