La crociata contro la pubblicità occulta è una battaglia di retroguardia

Qualche giorno fa un comunicato dell'Autorità garante delle comunicazioni ha annunciato una linea dura contro la pubblicità occulta degli influencer sul web, ma in fondo è solo l'ennesima battaglia di retroguardia che non servirà a nulla

Se ne parlava da un po’ e ora è arrivata la dichiarazione ufficiale dell’AgCom, la Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, che nei giorni scorsi ha diramato un comunicato in cui annunciava non solo di aver intrapreso un’indagine sul cosiddetto influencer marketing, ma anche di aver contattato alcuni dei più importanti “influencer” italiani insieme alle aziende che fornivano loro i prodotti e di averli avvisati che è ora di smetterla. L’oggetto della contesa? Ma la pubblicità non trasparente, quando non addirittura totalmente occulta, naturalmente. È di questo che l’AgCom, spinta dall’Europa, accusa gli “influencer”.

Ma mettiamo un po’ di ordine. Prima di tutto, che diavolo è l’influencer marketing e, domanda gemella, chi cavolo sarebbero questi “influencer”? Leggendo il comunicato dell’AgCom si legge che «L’influencer marketing consiste nella diffusione su blog, vlog e social network (come Facebook, Instagram, Twitter, Youtube, Snapchat, Myspace) di foto, video e commenti che mostrano sostegno o approvazione (endorsement) per determinati brand, generando un effetto pubblicitario, ma senza palesare in modo chiaro e inequivocabile ai consumatori la finalità pubblicitaria della comunicazione». Molto bene, e gli influencer? Sempre l’AgCom li definisce «personaggi di riferimento del mondo online, con un numero elevato di followers».

Appare chiaro che, almeno nella testa dell’AgCom, il problema sia esclusivamente il mondo della comunicazione online — sempre quello, foriero di terremoti e tragedie in ogni campo — ma mica tutto, soltanto quello dei social network, territorio in cui scorrazzerebbero questi pirati della pubblicità che chiamiamo influencer e la cui unica caratteristica è avere tanti followers. Nessun accenno alla qualità di quei follower, chiaramente, solo quantità. Quindi se hai 100mila follower su Instagram di cui tre quarti acquistati regolarmente sul mercato di Shangai sei un influencer, se invece hai 5mila follower veri, di quelli con portafoglio, che tra l’altro ti conoscono e che si fidano, be’, no, non sei un influencer e puoi fare un po’ quello che vuoi. E questo è il primo problema, il più marginale, quello che riguarda l’identificazione del chi.

Facciamo un balzo dal particolare al generale e arriviamo al secondo problema: l’identificazione del dove. Abbiamo accennato prima al fatto che la risoluzione dell’AgCom — che, ricordiamo, non è legge, non ancora almeno — sia rivolta esclusivamente al mondo del web. Molto bene. No, anzi, molto male, perché postulare che il problema della pubblicità occulta sia esclusivamente un problema del web è una cosa che fa abbastanza ridere.

Dichiarare, nel 2017, che il problema della pubblicità occulta sia esclusivamente un problema del web è una cosa che fa ridere

Infatti, se la pubblicità non trasparente o occulta sia quella forma di reclame che si maschera da non-reclame e non dice di esserlo, be’, allora ne è pieno il mondo, mica solo il web. Chiunque di noi ricorda almeno dieci scene viste in qualche serie tv o in qualche film in cui compaiono prodotti il cui marchio è visibile. Eppure nessuno si è mai sognato di pretendere di veder apparire sullo schermo l’hashtag #adv #pubblicità o #prodottodonatoda, ovvero le astutissime contromisure che suggerisce l’AgCom. Eppure difficilmente si riesce a credere che quella tal marca di auto o quella tal marca di smartphone non abbia avuto contatti con la produzione del film, anzi è proprio impossibile dal momento che i marchi sono registrati e, per usarli in un’opera qualsiasi, bisogna chiedere il permesso.

Per non parlare dell’odorosa carta, anche quella ormai bella ripiena di marchette, pubbliredazionali non segnalati, ovvero, in fin dei conti, pubblicità occulta. Basta sfogliare qualsiasi rivista, ma anche qualsiasi quotidiano per trovarne. Ce ne sono un sacco nelle pagine culturali — quando un quotidiano edito da una casa editrice pubblica una recensione della stessa casa editrice che cos’è, una recensione o una pubblicità? È segnalato? No. E qualcuno ha mai letto in fondo agli articoli che parlano di album, libri, concerti, fumetti, e tutto ilresto, la scritta #prodottodonatoda? Eppure, io stesso non mi compro i libri che recensisco, non pago per andare a vedere i film di cui parlo, e via dicendo. E lasciamo stare le pagine dedicate ai motori di ogni grande quotidiano nazionale, pagine in cui è molto difficile non trovare dei comunicati stampa.

E perché, le affiliazioni dei prodotti di Amazon? Quelle che cosa sono? Non è pubblicità? Sì, lo è, perché ogni volta che compri qualcosa seguendo quel link da un sito che ti fa la classifica dei 1000 libri più belli di sempre avendo cura di mettere su ognuno il bel linkino con l’affiliazione stai facendo guadagnare — non tanto, ma qualcosa sì — chi ti ci ha portato a quella pagina.

Non stiamo parlando di influencer, stiamo parlando di praticamente ogni tipo di pubblicazione, sia web che cartacea, che si basa sulla raccolta pubblicitaria, ovvero il 98 per cento circa del mercato. E qui arriviamo al terzo problema. Dopo quello particolare e quello generale, tocca a quello universale. E il problema universale è molto semplice: parlare di pubblicità occulta in un mondo come quello in cui viviamo è una cosa da ridere. Non che l’inganno debba essere legalizzato, anzi, ma se dovessimo sanzionare tutti quelli che fanno pubblicità a qualcosa senza dirlo, allora dovremmo sanzionare tutto e tutti.

Ripetiamolo, non vuol dire che si debba legalizzare la truffa e l’inganno, ma quando si pensa a un comportamento da sanzionare non si può non pensare a cosa significhi poi applicare quelle sanzioni. E questa sembra abbastanza inapplicabile.

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