Ogni volta che comunichiamo, siamo davanti a un terribile dilemma: dire tutto e correre il rischio di annoiare il nostro interlocutore; oppure sacrificare alcuni contenuti importanti ed evitare in compenso di abusare della sua pazienza. In realtà, però, non necessariamente siamo costretti a scegliere.
Q come quantità. L’associazione è quasi obbligata. Ma la “q” ricorda anche il concetto di qualità. O almeno, così dovrebbe essere.
Immaginando infatti di tracciare un grafico dove la linea orizzontale sta per la quantità, e quella verticale per la qualità, dovremmo riuscire a individuare un punto d’equilibrio per entrambi gli assi. È lì che risiede la comunicazione efficace.
Nella realtà di tutti i giorni, però, riconoscere con precisione quel punto non è poi così facile. Pensiamo a quando dobbiamo riassumere una negoziazione faticosa con un cliente al nostro capo che però ha solo una manciata di minuti per ascoltarci. Oppure a quando ci troviamo davanti a una mail piuttosto complicata da scrivere: dire tutto quello che si vorrebbe e farlo in modo chiaro, sintetico e impattante non ci viene per nulla naturale.
Robert Louis Stevenson sosteneva che “l’arte dello scrivere è omettere, omettere, omettere”. Già nell’Ottocento, insomma, aveva capito che l’altro “asse del grafico” da tener ben presente quando si comunica è rappresentato dal tempo.
Ne abbiamo poco noi per dire quello che vogliamo. E probabilmente ne ha ancora meno chi ci sta di fronte. Che, nella maggior parte dei casi, sarà disposto a dedicarci attenzione solo se saremo in grado di trasferirgli un “quantum di valore”.
Sono la qualità e la quantità di ciò che diciamo, abbinati al tempo che impieghiamo, a fare della persona davanti a noi una vittima del nostro discorso, confuso e troppo lungo, o piuttosto un interlocutore interessato e partecipe.
«Esprimi il tuo pensiero in modo conciso perché sia letto, in modo chiaro perché sia capito, in modo pittoresco perché sia ricordato e, soprattutto, in modo esatto perché i lettori siano guidati dalla sua luce»
Nessuno di noi, infatti, è Giuseppe Ungaretti, che di certo era votato alla sintesi. E nemmeno Gabriele D’Annuncio, noto invece per la sua loquacità. Come ben sappiamo, entrambi, pur con il loro stile estremamente diverso l’uno dall’altro, sono riusciti a garantire altissimo valore a quello che hanno detto e scritto. Purtroppo, però, per ognuno di noi, è molto più difficile raggiungere un sano punto di equilibrio tra qualità e quantità. Ciò non vuol dire che sia impossibile.
Un buon modo per riuscirci, è seguire questi tre semplici consigli:
Immergersi in un bel bagno di umiltà. Ovvero: chiediamoci sempre se quello che diciamo o scriviamo può essere utile agli altri. La risposta sarà spesso feroce, prepariamoci. Ma tant’è.
Selezionare. Se non lo facciamo noi, lo farà il nostro interlocutore. Tanto vale, allora, condurre noi il confronto e assicurarci che almeno il concetto più importante che abbiamo in mente venga veicolato e recepito in maniera chiara. Esprimiamolo quindi con forza e, se necessario, ribadiamolo.
Darsi una struttura. Individuare un “metodo” è sicuramente utile. Per verificare la sua reale efficacia, chiediamo “con coraggio” un feedback sulla nostra capacità di comunicare. Sottoporsi al “giudizio” altrui non è facile… ma di certo aiuta!
Come diceva Pulitzer, con una perfetta sintesi, “Esprimi il tuo pensiero in modo conciso perché sia letto, in modo chiaro perché sia capito, in modo pittoresco perché sia ricordato e, soprattutto, in modo esatto perché i lettori siano guidati dalla sua luce”.