C’è un che di autoassolutorio nel tentativo della propaganda occidentale di dipingere Kim Jong Un come un pazzo o, più blandamente, come un attore irrazionale della politica internazionale. In realtà il dittatore nord coreano sta giocando una partita assolutamente razionale e, dal suo punto di vista, logica. Anzi, la sta forse giocando meglio degli altri.
La recente escalation vede da un lato aumentare la pressione statunitense sul regime coreano, con minacce, sanzioni economiche dal duro impatto, esercitazioni militari congiunte con la Corea del Sud e voli di bombardieri atomici nei cieli di Corea. Dall’altro Pyongyang prosegue, e anzi intensifica, i propri sforzi non solo per avere armi atomiche ma soprattutto per avere adeguati vettori balistici su cui poterle montare e rendere effettiva la minaccia di azioni o ritorsioni nucleari. Di qui gli innumerevoli test missilistici compiuti dal regime negli ultimi mesi. Il tutto con il consueto corollario di minacce agli Usa e ai loro alleati d’area, in particolare Seul e Tokyo. L’ultimo gradino sceso in questa corsa verso il fondo è la minaccia della Nord Corea di colpire coi propri missili la base americana di Guam, avamposto militare nel mar delle Filippine, e la risposta rabbiosa dell’amministrazione Trump che minaccia l’annichilimento del regime.
Secondo gli esperti le mosse di Kim Jong Un, che appunto tutto sono tranne che irrazionali, si spiegano prendendo in considerazione una molteplicità di fattori. In primo luogo il giovane leader coreano ha bisogno di mostrarsi forte per ragioni di consenso interno. Le dinamiche profonde dello Stato nord-coreano sono difficili da sondare, ma in più occasioni negli anni passati sono trapelate voci di dissensi e critiche al leader, il che spiegherebbe anche le purghe e gli omicidi mirati ordinati da Kim da quando è salito al potere. Una posizione intransigente, e di scontro con Washington, serve poi a Pyongyang come arma negoziale e leva nei confronti di Pechino. Ma la ragione principale del recente innalzamento della tensione tra Nord Corea e Usa sarebbe soprattutto la volontà del regime di sopravvivere.
Una posizione intransigente, e di scontro con Washington, serve poi a Pyongyang come arma negoziale e leva nei confronti di Pechino. Ma la ragione principale del recente innalzamento della tensione tra Nord Corea e Usa sarebbe soprattutto la volontà del regime di sopravvivere
Pyongyang teme, non senza ragione, che gli Stati Uniti vogliano rovesciare il regime – dall’interno o militarmente – e che l’aumento della pressione americana su Pechino, salita ai massimi dopo l’elezione di Trump, possa produrre qualche risultato nei prossimi anni se non contrastata. Ha dunque deciso di anticipare il più possibile la carta, teoricamente, risolutiva: il deterrente nucleare. Una mossa, questa, già preparata dal padre di Kim Jong Un, Kim Jong Il, che aveva portato al primo test nucleare nel 2006. Nel 2002 il Paese era stato inserito da Geroge W. Bush nel cosiddetto “asse del male”, insieme a Iran e Iraq. Dopo la vittoria di Trump nel 2016 l’impressione è quella di una nuova, notevole accelerazione.
Se la Nord Corea riuscisse a dotarsi di testate atomiche, e di missili in grado di trasportarle efficacemente contro bersagli regionali (e forse anche internazionali), diverrebbe infatti impossibile o quasi ipotizzare azioni militari contro Pyongyang. La sopravvivenza del regime, specie nel breve-medio termine, sarebbe garantita e la Nord Corea diverrebbe una media potenza regionale in grado di condizionare a proprio favore la linea di politica estera degli Stati limitrofi. Non solo dei vicini sud coreani, ma anche di filippini, vietnamiti, australiani, giapponesi e ovviamente cinesi.
Il danno per gli Stati Uniti andrebbe molto al di là del, già consistente, pericolo nucleare che rappresenterebbe a quel punto il regime coreano. Verrebbe infatti dimostrata la sua incapacità di prevenire uno sviluppo tanto negativo per gli interessi suoi e dei suoi alleati in un’area in cui la tensione – per via del confronto con la Cina nel Pacifico, e non solo – è in costante aumento negli ultimi anni. Le ripercussioni in termini di perdita di prestigio – e capacità di influenza – presso gli alleati sarebbero gravi per Washington e non si potrebbe escludere che gli Stati della regione decidano di dotarsi a loro volta di un arsenale atomico.
Gli Usa condividerebbero questo smacco con un altro importante attore internazionale e soprattutto di quella regione, cioè la Cina. Pechino non ha mai sostenuto gli sforzi della Nord Corea di dotarsi di armi atomiche, perché questo pone il suo alleato in una posizione di forza difficilmente digeribile per la Cina. Di recente, sostengono alcuni analisti, i cinesi avrebbero addirittura passato informazioni agli americani a proposito del regime di Kim Jong Un e del programma atomico, e diversi omicidi politici ordinati dal dittatore coreano pare abbiano preso di mira proprio gli anelli di congiunzione tra la Nord Corea e Pechino.
Dunque Kim Jong Un, se riuscisse a dotare il proprio Paese di un arsenale nucleare effettivamente utilizzabile, portando a compimento il piano preparato dal padre, con una sola mossa garantirebbe la sopravvivenza della struttura di potere di cui occupa il vertice, metterebbe a tacere le critiche interne, si guadagnerebbe una formidabile arma di pressione nei confronti della Cina e dei Paesi della regione (alleati o ostili) e causerebbe uno smacco dalle pesanti conseguenze al suo peggior nemico, cioè agli Usa. Non esattamente la mossa di un folle dunque.
Kim Jong Un, se riuscisse a dotare il proprio Paese di un arsenale nucleare effettivamente utilizzabile metterebbe a tacere le critiche interne, si guadagnerebbe una formidabile arma di pressione nei confronti della Cina e dei Paesi della regione
E così si arriva agli scenari attuali, che orbitano intorno alla domanda “a che punto è il programma nucleare della Nord Corea?”. Già il fatto che sia un interrogativo rappresenta secondo gli analisti un grave fallimento delle intelligence americana, cinese, sud coreana e giapponese. Ma dalla risposta dipendono i probabili sviluppi del quadro strategico. Se il regime ancora non avesse sviluppato le capacità necessarie la cosa più logica, secondo gli esperti, sarebbe un attacco preventivo americano. Il problema in questo caso è che Pyongyang, anche se colpita da uno strike mirato, sarebbe comunque in grado di compiere ritorsioni anche molto violente nei confronti degli Stati alleati degli Usa della regione. Se invece l’intervento americano fosse più di larga scala, oltre al costo in termini di vite umane americane, si porrebbe l’enorme rischio di un improvviso logoramento dei rapporti con Pechino da parte di Washington. La cicatrice lasciata dal conflitto degli anni ’50 rischierebbe di riaprirsi drammaticamente. Dunque prima di una qualsiasi azione sarebbe necessario coinvolgere tutti gli attori locali, e secondo gli esperti non è un’impresa rapida o semplice.
Se invece il regime avesse già sufficienti capacità nucleari le opzioni sarebbero fondamentalmente due: puntare tutto su un regime changing dall’interno, finanziando e organizzando un colpo di stato che porti alla fine del regime (e secondo gli esperti anche questa opzione sarebbe molto difficile, vista l’abilità di Kim nel bruciare tutte le possibili alternative a se stesso), oppure rassegnarsi al nuovo status quo e cercare di governare la reazione degli alleati, magari propiziando un bilanciamento nucleare in stile India-Pakistan. Non un risultato meno che pessimo per la politica estera americana in ogni caso. Di qui il grande fermento degli ultimi giorni: si rischiano più danni a muoversi ora, a muoversi tra qualche mese quando la tensione sarà (forse) calata o a non muoversi affatto? Interrogativi che diventano pesanti come l’uranio, quando di mezzo c’è il rischio di una guerra nucleare.