Consapevolezza e lucidità. Sono due parole che dovremmo stamparci in testa a caratteri cubitali quando ragioniamo dei nostri rapporti economici con la Cina. Vale soprattutto in giorni come questi, in cui i rumors di interessi cinesi verso Fca stanno facendo correre i brividi lungo la schiena di molti e alimentando preoccupazioni legittime sul futuro della nostra produzione industriale. Sono anche i giorni che precedono il discorso sullo stato dell’Unione da parte di Jean-Claude Juncker, il quale il 13 settembre dovrebbe annunciare delle misure per contrastare gli investimenti cinesi che non avvengono secondo logiche di economia di mercato.
La consapevolezza riguarda, anzitutto, la fase storica che sta vivendo la Cina. Semplificando al massimo, il Paese asiatico ha alle spalle un paio di decenni in cui ha soprattutto accolto investimenti occidentali. Ha potuto in questo modo modernizzare un sistema industriale che era molto arretrato, divenendo la “fabbrica del mondo”. Da qualche anno le priorità sono cambiate, i salari hanno cominciato a crescere, la popolazione a invecchiare. La politica del “New Normal” si è posta l’obiettivo di puntare su uno sviluppo basato sui servizi (che già fanno il 51% del Pil) e su una produzione industriale a maggior valore aggiunto. Il flusso degli investimenti si è invertito e quelli verso l’estero hanno superato quelli esteri in Cina. Questi investimenti sono stati indirizzati per qualche anno verso i settori più disparati: non solo meccanica ma anche real estate, entertainment, media, anche sport, come sappiamo bene in Italia. In seguito, sempre più chiaramente è stato detto alle aziende, da parte delle che gli investimenti sono da indirizzare verso il settore della tecnologia e della manifattura avanzata. È uno dei pilastri del piano China 2025, volto a creare un sistema industriale all’avanguardia, sulla falsa riga del piano per l’industria 4.0 messo a punto originariamente dal governo tedesco. L’altra leva strategica di Pechino è il progetto One Belt One Road che è sia un ambizioso programma infrastrutturale, sia un modo per rimodellare la globalizzazione a immagine della Cina, e di estendere in un modo che non abbiamo finora mai visto (se ci limitiamo agli ultimi secoli) l’influenza cinese, commerciale e forse anche militare.
Un altro pezzo di consapevolezza riguarda i rapporti esistenti in Cina tra imprese e Stato. In breve, dobbiamo dimenticarci la separazione che conosciamo nei Paesi occidentali. La Cina funziona come un “sistema”, dove si intrecciano le azioni di governo, aziende, banche e consulenti. Sul principio di legalità prevale quello dell’unità dei poteri dello Stato, dove non ci sono contropoteri come stampa e magistratura. Questa consapevolezza è essenziale per leggere le dinamiche di cui sopra. «Il problema più grosso dei rapporti tra Occidente è Cina è quello delle asimmetrie tra i sistemi di mercato tradizionali e il modello cinese», commenta a Linkiesta Renzo Cavalieri, of counsel dello studio legale Bonelli Erede, attivo da quasi 30 anni nel Paese. «Sia che siano imprese pubbliche o private, operano tutte secondo uno stesso schema strategico. Per quanto le modalità siano complesse, gli investimenti e decisioni sono completamente indirizzati dal governo o dal partito».
La presidenza di Xi Jinping, che nei prossimi mesi otterrà il secondo mandato (in mezzo c’è uno scontro feroce tra funzionari del partito che è poco enfatizzato in Occidente), si è contraddistinta per aver reso più chiaro questo indirizzo pubblico sulle scelte delle imprese, continua Cavalieri.
«Il problema più grosso dei rapporti tra Occidente è Cina è quello delle asimmetrie tra i sistemi di mercato tradizionali e il modello cinese. Sia che siano imprese pubbliche o private, operano tutte secondo uno stesso schema strategico. Per quanto le modalità siano complesse, gli investimenti e decisioni sono completamente indirizzati dal governo o dal partito»
Il terzo elemento di cui essere consapevoli è che, proprio per questa impostazione di fondo, ipotizzare una reciprocità nei rapporti commerciali basata sui classici schemi di economia di mercato è illusorio. Lo si vede anche in esempi semplici: le acquisizioni cinesi di aziende europee nel campo della meccanica e automazione sono state diverse, ma le società del settore dell’automotive che si sono installate in Cina (quasi tutte, a partire da Volkswagen, Bmw e la stessa Fca) hanno potuto farlo solo attraverso joint-venture con società cinesi. Altre barriere ci sono nel settore finanziario. Esiste, più in generale, lo strumento del “catalogo degli investimenti”, che regola gli investimenti esteri in Cina e si aggiorna a seconda degli avanzamenti tecnologici nel Paese. Lo sanno bene i produttori di macchine tessili, che hanno visto negli scorsi anni un crollo repentino delle loro esportanzioni in Cina.
C’è poi un quarto aspetto che bisogna considerare: che Pechino ha fin qui potuto trattare con gli Stati europei attraverso accordi bilaterali, sfruttando la sua potenza di fuoco e trovandosi di fronte Paesi divisi. Lo conferma Alberto Rossi, responsabile marketing della Fondazione Italia-Cina e uno dei principali curatori del rapporto annuale della fondazione, assieme a Filippo Fasulo (coordinatore scientifico CeSif). «Saluteremmo positivamente il momento in cui dovesse esserci una posizione unitaria in Europa. I cinesi si insinuano dove ci sono le divisioni e preferiscono di gran lunga usare gli accordi bilaterali». Uno degli esempi più recente di questo tipo di atteggiamento si è visto con gli accordi sulle infrastrutture per la via della Seta, aggiunge. L’Italia ha spinto, attraverso una presenza in Cina alla presentazione del progetto One Bel One Road dello stesso premier Gentiloni, per investimenti sul porto di Trieste. Pochi giorni dopo la Germania incontrava il premier cinese Li Keqiang per spingere sul porto di Amburgo. L’Europa no è pervenuta.
L’ultimo tassello del puzzle è il ruolo degli Stati Uniti. Che il presidente Donald Trump chieda di rinegoziare i rapporti con la Cina è un fatto che è stato promesso mille volte nella campagna elettorale. Per quanto di concreto si sia visto poco (e sul ruolo della Cina come manipolatore di valuta ci sia stato un passo indietro), c’è da attendersi una forte pressione, a partire da casi come quello di Fca. «Negli Stati Uniti, d’altra parte, c’è tradizionalmente un forte controllo da parte del governo su aziende considerate strategiche – commenta Renzo Cavalieri -. Per quanto sia un’economia di mercato, sono molto attenti su questo aspetto», attraverso il Committee on Foreign Investment. Il punto, aggiunge l’avvocato è che i cinesi stanno tirando molto la corda e non si sono ancora resi del tutto conto che la tendenza sta cambiando e che la richiesta di protezionismo cresce. Per dirla in altro modo, se non si riesce a raggiungere un punto di equilibrio sulla reciprocità degli investimenti, gli accordi si possono bloccare. «Questo sarebbe un grande problema anche per la Cina, che ora deve fare uno sforzo. Deve liberalizzare il mercato interno. Non so, sinceramente, se ci riusciranno».
Di certo, ed è ancora una questione di consapevolezza, per quanto possano vivere con fastidio le mosse di Usa e Stati europei, la classe dirigente cinese si è sempre dimostrata pragmatica, «maestra nel cogliere l’attimo e il massimo delle opportunità nelle condizioni date. Preferirebbero che non ci fosse una politica unitaria europea, ma ci fosse scenderebbero a patti», aggiunge l’avvocato.
«Saluteremmo positivamente il momento in cui dovesse esserci una posizione unitaria in Europa. I cinesi si insinuano dove ci sono le divisioni e preferiscono di gran lunga usare gli accordi bilaterali»
Per il momento, come quadro di partenza può bastare. Che cosa dobbiamo fare noi, intesi come europei? Qui entra in campo la seconda parola chiave: lucidità. In uno slogan, si potrebbe dire: sì ai paletti, no alle barriere. La strada su cui sta ragionando la Commissione europea (come hanno ricostruito Politico e il Financial Times nei giorni scorsi) è quella di uno “screening” preventivo sugli investimenti cinesi, per capire se abbiano una logica di mercato o siano semplici strumenti della volontà politica di Pechino. E, sulla base degli esiti di questo esame, la possiiblità di porre dei veti agli investimenti stessi. Tale screening potrebbe avvenire in due modi: armonizzando i sistemi di esame preventivo degli investimenti esteri, che però rimarrebbero prerogativa degli Stati. O trovando uno strumento di tipo comunitario. La prima è considerata una via meno ambiziosa ma potrebbe essere più realistica, visto che gli investimenti sono passati fin qui attraverso trattati bilaterali (il Wto, invece regola soprattutto gli scambi commerciali).
«Esiste la necessità per l’Europa di adattare gli strumenti di screening di controllo. Un’Unione europea senza il Regno Unito potrebbe mostrarsi più unita, perché Germania, Francia e Italia, tutti Paesi industriali, hanno un atteggiamento simile», commenta l’avvocato Cavalieri, che ancora una volta invita alla lucidità. «Ci sono investimenti cinesi che possono essere utili a entrambi. La logica del win-win è molto cinese: è necessario saper identificare le vere opportunità ed evitare di fare di tutta l’erba un fascio. Ci sono investimenti predatori ma anche altri non predatori».
L’invito a distinguere si estende alla natura dell’investimento: «se è di minoranza e non di controllo è da accogliere a braccia aperte, se è di controllo, è necessario verificare che non sia volto a spolpare le società del loro know how». Per evitare il secondo scenario, la politica può e deve giocare una parte fondamentale. «L’Italia ha un problema particolarmente grosso di politica industriale. Non tanto l’attuale governo, perché un minimo di politica industriale ce l’ha. Ma Francia e Germania hanno molto più cura dei loro interessi, noi dovremmo fare di più, perché le nostre aziende sono piccole e meno in grado di trattare alla pari con le aziende cinesi, come invece possono fare le grandi imprese tedesche e francesi».
Nel caso dell’acquisto di una grande impresa italiana come Pirelli da parte di ChemChina, un accordo si trovò e fu tutelata sia l’occupazione che la ricerca e sviluppo in Italia. Potrà succedere così anche con Fca? Molto dipenderà dai vari attori in campo, che hanno interessi diversi: gli azionisti di Fca (cioè gli Agnelli), il management di Fca, il governo italiano e l’amministrazione Trump. Di certo il film che si prospetta è diverso nel caso di un’alleanza tra una Fca unita e una casa automobilistica cinese oppure di una vendita a pezzi. Nel primo caso Fca potrebbe trarre vantaggi (accesso al mercato cinese e agli incentivi per le auto elettriche), e offrirne altri al suo partner (accesso al mercato Usa) e la politica potrebbe chiedere in cambio di tutto questo la protezione dell’occupazione e dei centri di ricerca. Nel caso di una vendita a pezzi le conseguenze potrebbero essere ben diverse e bisognerà vedere chi, dei vari stakeholder in gioco, sarà quello che ci guadagnerà.
«Ci sono investimenti cinesi che possono essere utili a entrambi. La logica del win-win è molto cinese: è necessario saper identificare le vere opportunità ed evitare di fare di tutta l’erba un fascio»