Nonostante una ripresa che inizia a dare segnali convincenti e di cui non possiamo non rallegrarci la sfida del lavoro resta aperta e difficilissima. Troppi i giovani che non trovano lavoro o che impiegano anni per trovare un percorso professionale, in crescita le persone tra i 30 e i 55 anni che sono disoccupate da più di un anno, un cuneo fiscale che penalizza i livelli di reddito, solo per citare alcuni dei problemi più pesanti. Stiamo risalendo, ma i livelli pre-crisi sono ancora lontani e soprattutto permangono le difficoltà ventennali sul piano della scarsa produttività, sugli abbandoni scolastici, sugli insufficienti investimenti in ricerca e sviluppo. Difficoltà che dovrebbero indurci a non ragionare sui decimali del PIL o a continuare a dire che il problema è la Germania che spinge l’Unione Europea a non darci flessibilità e ci costringe al fiscal compact.
Ma più di tutto oggi dobbiamo saper guardare in termini prospettici perché forse il lavoro per effetto dell’impetuoso sviluppo dell’innovazione non sta finendo – come dicono in molti -, ma certamente sta cambiando enormemente e ci costringe a lavorare sul medio periodo in modo strutturale. Si tratta di una sfida che ha certamente a che fare con le scelte di politica economica e industriale, ma prima ancora che è legata ad alcune scelte culturali di fondo. Ci sono alcune domande ineludibili a cui dobbiamo rispondere.
Qual è il valore del lavoro per la persona, quanto esso è parte della sua realizzazione e del suo compimento vocazionale? Dalla concezione del lavoro discendono le politiche che si attuano; ad esempio il reddito di cittadinanza o l’integrazione per la pensione dei giovani non c’entrano col lavoro, possono essere una misura più o meno condivisibile e/o efficace di welfare, ma il lavoro è fattore di autorealizzazione ed è il più grande strumento di mobilità sociale che abbiamo avuto in occidente.
La polarizzazione dei lavori verso le fasce a più alto reddito legate prevalentemente all’innovazione e verso quelle a minor reddito legate al diffondersi dei servizi alla persona è un fatto ineludibile e accettabile? Le proposte di tassazione mondiale sulla ricchezza (Piketty) o dei Robot (Bill Gates) o il reddito di base (Zuckerberg) sono una soluzione per la classe media? Rendite finanziarie e sfruttamento dei dati personali sono l’unica strada che abbiamo davanti? Il saper fare di cui l’Italia è stata capace nei secoli ha ancora un ruolo da giocare?
La tecnologia spiazzerà il lavoro in una logica globale dove profitti e reddito saranno appannaggio di pochi? O come già avvenuto sarà superato lo spettro che negli anni 30 Keynes invocava come disoccupazione tecnologica e ha invece ragione Ignazio Visco quando afferma che: Storicamente, il progresso tecnologico ha creato nell’immediato vincitori e vinti, ma nel lungo periodo ha generato più posti di lavoro di quanti ne abbia distrutti (Prometeia 2015)?
La diseguaglianza tra i paesi è diminuita a partire del 1950, anche se considerando i soli paesi occidentali questa diminuzione si arresta nel 1980, ma all’interno delle società avanzate è oggi sensibilmente più alta di 40 anni (Fondazione Davide Hume 2015). Molti sostengono che i livelli di disuguaglianza sono intollerabili, ma anche qui c’è una domanda di fondo: preferiamo una società più uguale o una più ricca? Una dove il divario tra poveri e ricchi è più alto, ma dove i poveri vivono meglio o viceversa? L’egualitarismo dichiarato del socialismo reale è stata una risposta convincente?
La più importante è l’investimento nei sistemi educativi e formativi. Non c’è leva più potente per affrontare i cambiamenti di quella di uomini e donne preparati professionalmente, inclini al cambiamento, ma soprattutto educati ad affrontare con positività il reale. Le superiori in 4 anni non possono essere solo l’adeguamento a standard europei o alla necessità di andare a lavorare prima, ma devono mettere in discussione il paradigma enciclopedico che è alla base del nostro sistema di istruzione
È evidente che qualsiasi sia la risposta a queste domande il tema del futuro del lavoro e del benessere diffuso richiedono oggi scelte coraggiose e di medio periodo. Proviamo a suggerirne qualcuna:
La più importante è l’investimento nei sistemi educativi e formativi. Non c’è leva più potente per affrontare i cambiamenti di quella di uomini e donne preparati professionalmente, inclini al cambiamento, ma soprattutto educati ad affrontare con positività il reale. Qualcosa si sta muovendo (buona scuola e alternanza, sistema duale, Jobs Act, sperimentazione del secondo ciclo in 4 anni), ma in modo ancora troppo timido e anche qui non affrontando sino in fondo alcuni temi di fondo. Le politiche attive non potranno mai funzionare senza una vera cultura sussidiaria che sappia mettere insieme pubblico e privato, che sia capace di valorizzare i percorsi di istruzione e formazione professionale e la formazione terziaria accademica e non. Le superiori in 4 anni non possono essere solo l’adeguamento a standard europei o alla necessità di andare a lavorare prima, ma devono mettere in discussione il paradigma enciclopedico che è alla base del nostro sistema di istruzione.
La regolazione del mercato del lavoro può essere un altro fattore determinante per favorire alti tassi di occupazione e mobilità sociale. Se è vero infatti che il lavoro lo creano le imprese e non le leggi, è altrettanto verificabile che leggi cattive e modificate di continuo demotivano gli investimenti sia italiani che esteri, scoraggiano i giovani a realizzare start up. etc. Inoltre il tema centrale è che la regolazione sia incentrata su elementi di tipo strutturale e non congiunturale. Non bastano gli 80 euro che possono piacere o no, possono aver stimolato poco o tanto i consumi, ma non incidono in modo strutturale. Anche la decontribuzione per le assunzioni altalenante negli anni rischia di generare solo punte temporanee. Cosi anche il dibattito sui voucher e sui tirocini è intriso di inutile ideologia. Le decisioni strategiche sono di altra natura, ad esempio se spostare la tassazione dal lavoro alle cose, se intervenire e come sul cuneo fiscale, come posizionarsi nella globalizzazione evitando di restare solo consumatori e cercando di posizionarsi sulla catena del valore della produzione e delle piattaforme (Amazon, Airbnb, etc), come posizionarsi nella catena della supply chain presidiando i mercati internazionali.
La lotta alla burocrazia ottusa e invadente e allo statalismo è una terza gamba per favorire la crescita del lavoro. La rincorsa continua a regolamentare ogni dettaglio dell’attività economica lungi dall’averci liberato da furbetti ed evasori ha reso sempre più impervia l’intrapresa economica. Occorre un nuovo patto sociale. Le difficoltà visibili dei corpi intermedi tradizionali chiedono anche di ripensare ai metodi della partecipazione e della concertazione, ma di essa c’è bisogno e si può partire con un po’ di realismo, per affrontare le sfide che abbiamo davanti, da quelle esperienze che hanno realizzato con successo risposte efficaci
Ci sono poi altri temi che pur non avendo un legame immediato con lo sviluppo delle opportunità di lavoro e con la lotta alla povertà risultano determinanti per ottenere risultati positivi. Tra questi vale la pena citare le politiche di sostegno alla famiglia, la lotta alla denatalità, il riequilibrio del debito pubblico, un fisco amico dei cittadini e delle imprese.
La sfida è grande e chiama in causa ciascuno di noi e chiede alla grande tradizione del nostro Paese che la cultura cattolica (si vedano in proposito i recenti interventi del Presidente della Cei il cardinale Gualtiero Bassetti) liberale e operaia lavorino per riconquistare quello che i padri fondatori ci hanno lasciato in eredità
*Presidente Piazza dei Mestieri