RIMINI – «Non possiamo contemporaneamente lamentarci dell’immigrazione ed essere indisponibili a fare intere gamme di mestieri solo perché abbiamo creduto che non valga la pena farli». Matteo Marzotto, imprenditore e manager, ha cinquant’anni, è l’ex golden boy di una famiglia storica per la moda italiana. Bello, brillante e famoso, nonché figlio di Marta, «una mamma ingombrante in positivo, mi ha insegnato a ripartire dalle difficoltà». Prima le aziende di famiglia, poi la presidenza della maison Valentino, oggi è a capo del marchio Dondup. Una vita tra fabbriche e uffici, feste e salotti, mondanità e cronache tendenti al rosa. Fidanzate del calibro di Naomi Campbell, un compagno di scuola come Gianluca Vacchi («amico fraterno, gli voglio molto bene»). Ma anche l’avvicinamento alla fede, l’impegno nella ricerca contro la fibrosi cistica. «Non mi sono mai sentito limitato da quello che hanno scritto di me. D’altronde per molti anni ho fatto un mestiere esposto, nella moda ci sono leve della comunicazione di un certo tipo». Vicepresidente esecutivo di Italian Exhibition Group, nata dalla fusione delle fiere di Rimini e Vicenza, Marzotto si muove tra le due città con un elicottero che guida personalmente. In Romagna è atterrato anche per partecipare al Meeting di CL dove ha parlato di giovani, formazione e lavoro.
Perché non la convince lo slogan giovanile “ci hanno rubato il futuro”?
Perché qualcuno aveva regalato il futuro alle generazioni precedenti. Qualcuno che non ce l’aveva e se l’è costruito. Parliamo di generazioni che hanno vissuto guerre mondiali ed enormi discontinuità. Ogni generazione vive l’incertezza del futuro. Ma non c’è niente di dovuto, salvo l’affetto della famiglia. Riflettiamo sul grande numero di persone che non cercano lavoro e che non studiano (i neet, ndr). È una questione di sistema pensionistico per cui qualcuno tira la cinghia e qualcun altro si aggancia? È sgradevole da dire, ma ho la sensazione che si siano persi mordente, orgoglio e fame di riuscire. Talenti che gli italiani hanno sempre dimostrato di avere.
Qualcuno potrebbe dire che per lei è facile parlare, arriva da una famiglia facoltosa…
Io parlo con la gente, assumo le persone. Per me è più facile? Forse, ma ognuno perde quello che ha da perdere. Il facile e il difficile sono relativi. Dico solo che non possiamo contemporaneamente lamentarci dell’immigrazione e non essere disponibili a fare intere gamme di mestieri solo perché qualcuno ci ha detto essere mestieri che non valga la pena fare.
A proposito di giovani, lei presiede il premio Gaetano Marzotto, che sostiene imprenditoria innovativa e “costruttori di futuro”. Sulle start-up l’Italia è in clamoroso ritardo rispetto a paesi come la Francia. La situazione è irrecuperabile?
L’Italia ha valorizzato tardi un settore cruciale, quello dell’innovazione. Come spesso accade, siamo più addormentati di altri. È una caratteristica frustrante del nostro Paese. Nel sistema delle start-up si trovano persone e spunti importanti: così accade nel caso del Premio Marzotto, vedo di anno in anno un mondo che cresce. Non tutti quelli che selezioniamo hanno successo, ma la maggior parte rimane sul mercato e cresce, magari sviluppando anche altri prodotti. Ho grande fiducia anche nel network delle nostre università, serbatoi di conoscenza e aggregatori di sapere. Certo, l’Italia è più lenta rispetto ad altri Paesi, infatti non guarderei l’orizzonte dei 3-5 anni, serve un lasso di tempo più ampio.
Quali misure chiederebbe al prossimo governo per dare slancio al settore delle start-up?
Sicuramente la semplificazione della burocrazia, ma anche una decisa politica fiscale verso le start-up, perché abbiano più flessibilità sul lavoro. Serve una vera defiscalizzazione, almeno per l’avviamento della società. D’altronde una start-up di successo non può vedersi prima di tre o cinque anni. Un paese avveduto dovrebbe tenere conto di queste dinamiche.
«L’Italia ha valorizzato tardi un settore cruciale, quello dell’innovazione. Come spesso accade, siamo più addormentati di altri. È una caratteristica frustrante del nostro Paese»
Un altro settore a lei caro è il turismo, una miniera d’oro che l’Italia sfrutta ancora troppo poco. Lei ha diretto l’Enit, l’ente statale da più parti definito un carrozzone..
Il turismo è una voce insostituibile del bilancio del Paese. Settant’anni fa la chiamavano “industria del turismo”, poi l’Enit è diventato “ente” nazionale per il turismo. Questo rende l’idea della deriva cui si è arrivati. Il colpo di grazia si ha avuto con l’assegnazione della competenza esclusiva sul turismo alle Regioni, il famoso articolo 117 del titolo quinto della Costituzione. Ognuno per sé con stratificazione di costi, scarse competenze ed enorme disallineamento. Resta il fatto che 54-55 milioni di persone vengono a visitare l’Italia, nel 2010 erano 45-46. Ma in questo momento c’è un tema importantissimo: la sicurezza. Bisogna mettere in campo una serie di attività per far apparire l’Italia un Paese sicuro. Ci darebbe un enorme vantaggio competitivo.
Il dibattito estivo sulla ripresa economica, vera o presunta, divide l’opinione pubblica. Lei da che parte sta?
«Sono ottimista e mi fido dei numeri espressi da istituzioni che sono al di sopra ogni ragionevole dubbio. Da alcuni punti di osservazione vedo una ripresa tangibile. Ma magari, nella vita di tutti i giorni, parlando con chi ha faticato in questi anni, forse la ripresa non si vede ancora. Ma sono processi che inevitabilmente hanno una loro inerzia.
Che giudizio dà al governo Gentiloni?
È un governo non eletto, che arriva dopo un esecutivo inciampato su una questione evitabile come quella del referendum costituzionale. Non è lecito aspettarsi chissà cosa, c’è da gestire una transizione. Gentiloni si sta comportando molto dignitosamente. È una persona equilibrata e culturalmente evoluta, adeguata al ruolo. Ma anche per i governi eletti, e si è visto con Trump, ormai ci siamo abituati a un fatto gravissimo…
Quale?
Ai proclami annunciati in campagna elettorale che poi vengono disattesi un minuto dopo le elezioni. Un fatto gravissimo. Non si possono abbindolare gli elettori, che a loro volta non devono accettare di farsi abbindolare…
La politica italiana è in crisi di rappresentanza e in cerca di “papi stranieri”. Lei ha mai pensato di scendere in campo?
Non penso di esserne capace, me ne sono accorto lavorando all’Enit. E oggi non vedo una classe politica adeguatamente preparata. Da cittadino mi auguro che aumentino le competenze e l’umiltà di chi fa politica. E magari che diminuiscano i toni. Culturalmente serve gente che affronti temi come sostenibilità ambientale e grandi migrazioni, temi che richiedono una preparazione enorme. Che oggi non vedo.
Un aggettivo per definire, rispettivamente, Renzi, Grillo e Salvini?
Non sono un buon giudice, ma il Paese ha bisogno di equilibrio. E tutti e tre devono recuperarne molto…
«Il turismo è una voce insostituibile del bilancio del Paese. Settant’anni fa la chiamavano “industria del turismo”, poi l’Enit è diventato “ente” nazionale per il turismo. Questo rende l’idea della deriva cui si è arrivati. Il colpo di grazia si ha avuto con l’assegnazione della competenza esclusiva sul turismo alle Regioni. Ognuno per sé con stratificazione di costi, scarse competenze ed enorme disallineamento»
Da veneto, come voterà al prossimo referendum per le autonomie?
Sono contrario a questo referendum. l’Italia da sola è piccola. Anche l’Europa è quasi diventata piccola. Io sono un sostenitore delle tradizioni e delle peculiarità culturali dei territori, ma per una regione di quattro milioni di persone isolarsi è una pazzia. A livello fiscale si possono fare conversazioni interessanti, come le fiscalità diverse a seconda dell’area. Penso alla Florida. Ma per farlo non bisogna isolarsi.
Restando sul suo territorio, lo scandalo delle banche venete che impressione le ha fatto?
È stato un passaggio drammatico che deve servire a non creare aree di potere che si perpetuano per decenni. In questa vicenda non vedo nessun vincitore, ma solo degli sconfitti. Quello che abbiamo visto in Veneto ha dell’incredibile. Ed era un po’ incredibile che questi istituti continuassero a crescere come volevano far credere, prestando denaro, con le azioni che crescevano, in uno scenario in cui il Paese si impoveriva fortemente. I campanelli d’allarme c’erano e la colpa non è di pochi. Ma situazioni del genere non si verificano solo in Veneto o in Italia. Nel mondo ci sono banchieri che, per uno strano sistema, prendono 100 milioni all’anno tra stipendio, benefit e premi. Questa, in modo diverso, è un’incoerenza e forse anche un’ingiustizia.
«Sono contrario al referendum sull’autonomia. l’Italia da sola è piccola. Anche l’Europa è quasi diventata piccola. Io sono un sostenitore delle tradizioni e delle peculiarità culturali dei territori, ma per una regione di quattro milioni di persone isolarsi è una pazzia. A livello fiscale si possono fare conversazioni interessanti ma per farlo non bisogna isolarsi»