Daniel Pennac: «Per favore, professori: piantatela di dire che i giovani non leggono!»

Il grande scrittore francese, ospite al Festivaletteratura di Mantova per un reading del suo ultimo libro, si confronta con le nuove tecnologie e con vecchie paure che ci spacciano continuamente per nuove: "Nessuno legge più libri? Lo sento ripetere da 50 anni eppure siamo ancora qui"

Prima ancora di essere uno degli scrittori più letti del mondo, Daniel Pennac è un insegnante, un professore di lettere. Lo si direbbe anche senza saperlo, basta osservare la pazienza con la quale ascolta le domande, la calma con cui si prende il tempo per pensare e, poi, per rispondere, la tendenza a cercare lo sguardo di tutti i presenti quando parla.

Addirittura, più che un insegnante Pennac ha l’aura del maestro, uno di quelli pazienti e acuti che capisce sempre chi ha davanti, uno di quelli che cambiano la vita degli allievi che gli passano davanti. Ma c’è una cosa che più della scrittura di saggi, di opere teatrali, di romanzi, perfino di fumetti, appassiona Pennac, da sempre: la lettura. E proprio di questo abbiamo parlato, dietro le quinte del Teatro di Mantova, poco prima del reading che lo scrittore francese avrebbe tenuto domenica 10 settembre davanti al pubblico del Festivaletteratura di Mantova.

«Che effetto ha fatto sulla lettura l’arrivo nelle nostre vite di tutti questi schermi, la dematerializzazione dei libri e il consumismo della comunicazione?», risponde con calma, ripetendo la domanda come fanno i maestri quando gliene si pone una un po’ stupida. Ma non perde per niente la pazienza, anzi, inizia a raccontare una storia: «Allora, devi sapere che il mio primo posto da insegnante mi capitò nel 1969. Il primo giorno sono entrato a scuola, sono andato in aula professori e tutti i miei colleghi più anziani, dei vecchi professori di sessanta-settant’anni, mi accolsero come si accolgie un novellino, un principiante. Mi ricordo che una delle prime cose che mi dissero fu: “Sai, ormai non leggono più…”.

Ah, cavolo, già nel 1969?
Sì, ed è una cosa che ho sentito mille altre volte nel corso di tutta la mia vita. Tutta la mia vita l’ho sentito dire: non leggono più per colpa della televisione, o per colpa dei videogiochi, della pigrizia, del consumismo. Ok, benissimo, non leggono più. «Ma allora», dissi ai miei colleghi, “Voi? Voi leggete? Cosa leggi tu?”, chiesi al mio collega di filosofia. Lui mi rispose che leggeva saggi, «Tanti saggi, sai, per preparare le lezioni, per tenermi aggiornato». “E cos’altro”, gli chiesi. “Mah”, rispose, “confesso che non amo molto i romanzi, in generale”. “Quindi”, gli dissi sorridendo, “in fondo non leggi niente neppure tu? Sei un tecnico della filosofia che non legge altro che filosofia per fare dei corsi di filosofia. E vieni a dire a me che i ragazzi non leggono più? Ma nemmeno tu leggi più”. E allora chiesi al collega di Storia. Sai cosa mi rispose?

La stessa cosa del suo collega di filosofia?
(Ride) Esatto. Questo vuol dire che questa concezione della lettura come mero principio del dovere non c’entra nulla con il desiderio di leggere e di far leggere. È solo un’attività pedagogica. «I ragazzi di oggi non valgono niente perché non leggono più», dire una cosa del genere non ha senso. E infatti lo si dice da oltre 50 anni. Ogni volta cambia solo il pretesto. Una volta la televisione, poi il divorzio, poi i cellulari, le serie tv, chissà quale sarà il prossimo nemico numero uno della lettura. Ma sta di fatto che, da 50 anni, nessuno legge più.

Perché allora?
L’unica ragione per cui dei ragazzi scolarizzati non leggono è che i loro professori non sono in grado di condividere con loro le proprie letture. E perché non sono in grado di condividere con i loro ragazzi le loro letture? Perché non leggono. Perché leggono soltanto libri specializzati, tecnici, sulla propria materia. E i professori di lettere? Dagli anni Sessanta agli anni Novanta, per trent’anni, non si sono interessati che allo strutturalismo, alla semiotica e a tutto ciò che era teoria della Letteratura. Non leggevano letteratura, leggevano metaletteratura. E avevano anche il coraggio di dire ai ragazzi che erano loro a non leggere. Che idioti…

Ma c’è stato veramente un tempo in cui non si diceva?
Ma, sai, è proprio la frase in sé che non tiene. Perché dire che i giovani non leggono più significa fare un confronto. Ma in rapporto a quando non leggono più? In confronto al 1869? Eh no, perché rispetto a un secolo prima è imparagonabile la quantità di lettori che ci sono in Europa, c’è stata la democratizzazione delle scuole, la scuola dell’obbligo e via dicendo. Molto bene, e invece in rapporto a dove, non leggono più? In confronto al Texas? Eh no.Sai, hanno fatto un sondaggio, qualche anno fa, sui regali di Natale. Statisticamente secondo te qual è il primo oggetto che si regala a Natale negli Stati Uniti?

Libri?
Mmmh, no. Negli Stati Uniti…

Ah! Armi!
Esatto. E invece sai qual è il regalo più diffuso in Francia?

Questa la so: libri.
(Ride) Sì. E ciò nonostante c’è un sacco di gente, professori per di più, che da cinquant’anni si lamentano che non legge più nessuno.

Ma come sta veramente la letteratura oggi?
Nonostante questa interessante autovittimizzazione del mondo letterario direi che c’è al contrario una iper produzione, un’inflazione delle pubblicazioni. Poi, sia chiaro, non è che tutto quello che si pubblica sia letteratura, molto spesso è persino difficile considerarli libri. Hanno la forma dei libri, ma non c’entrano nulla e in più hanno trasformato gran parte dei librai in magazzinieri, sormontati da queste montagne di libri che non sanno più dove mettere e la gente fa quel che può per leggere.

In ogni caso, nonostante le librerie siano pieni di libri usa e getta e nonostante da più di cinquant’anni si continui a ripetere che nessuno legge, noi siamo qui, seduti dietro le quinte di un teatro a un festival di Letteratura che ha più di vent’anni e lei vive della sua scrittura da decenni…
Ah, ma questo è solo il caso. Il fatto che io sia molto letto e altri no credo che derivi molto più dal caso che da altre cose. Non credo nel merito dello scrittore. Credo piuttosto nel merito del lettore che continua a leggere.

I lettori sono tipi umani molto resilienti sembra, non la stupisce che ne esistano ancora così tanti?
Sì, mi stupisce, ma è perché la letteratura crea dei legami. Ci sono scrittori che ne creano più di altri. Per esempio, quel che è successo alla famiglia Malaussène — una famiglia che non è esattamente una famiglia, che è una famiglia elettiva nella quale tutto è mischiato — è entrata nell’immaginario dei lettori, ovvero ha formato dei legami con i suoi lettori. Se prendi invece la letteratura di Houellebecq, anche lui crea dei legami, ma in un settore opposto, quello di individui monadi della classe media francese, consumatori che detestano consumare, solitari che odiano la solitudine. È un altro gruppo di lettori, e Heuellebecq è il loro trait d’union. Ma in Francia c’è anche gente che vuole semplicemente sentirsi raccontare delle storie. Prendi Jean Christoph Rufin, lui è un narratore puro, e soddisfa qualcosa che abita in profondità un certo pubblico di lettori, un bisogno aneddotico, ma ancora più un desiderio di metafore, di figure che possano spiegarci il senso di quello che viviamo, della nostra vita, della nostra esistenza sulla Terra. Ci sono alcuni ambienti e classi sociali quindi, in cui la lettura resiste. È per questo che una decina, una ventina o forse anche un centinaio di scrittori possono ancora vivere solo della propria scrittura. Ma più che merito loro è merito della fortuna che gli ha fatto incontrare dei lettori.

«L’unica ragione per cui dei ragazzi scolarizzati non leggono è che i loro professori non sono in grado di condividere con loro le proprie letture. E perché non sono in grado di condividere con i loro ragazzi le loro letture? Perché non leggono»

E invece la serialità ha cambiato qualcosa nel nostro rapporto con la letteratura? È un nemico come pensa qualcuno?
Non credo, credo che più che sulla frequentazione della letteratura abbia avuto più impatto sulla frequentazione dei cinema e dei film. La tendenza alla serializzazione della narrativa audiovisiva è certamente un concorrente per la dimensione del film “unico”. Tanto che quando c’è un film classico che funziona subito pensano di farci una serie. Ora, in letteratura questo fenomeno esiste in maniera molto minore, se esiste. Anche io, che ho scritto una specie di serie come i Malaussène, scrivo anche molto altro tra un “episodio” e l’altro, saggi, un libro su mio fratello, altri romanzi. Questo perché l’autore di un libro lavora per se stesso, scrive quello che ha voglia di scrivere. E infatti dietro alla magior parte delle serie ci sono squadre di sceneggiatori. Nei casi migliori, uno scrittore scrive perché segue una pulsione, un istinto, e non è diretta a nessuno se non a se stesso. Ora che sto scrivendo per esempio un libro su mio fratello, un fratello che ho perso, lo sto facendo prima di tutto per me, per lui. Poi, certo, i lettori lo leggeranno, ma non nasce dalla necessitò di raggiungerli, come invece le serie televisive.

Pensa mai ai suoi lettori quando scrive?
No, o meglio, ogni tanto, ma solo quando scrivo dei saggi, me lo chiedo continuamente quale sia il punto di vista dei miei lettori. Mi fermo a riflettere sulle possibili critiche e obiezioni, sui loro bisogni, su quello che si aspettano da me. Ma quando si parla di romanzi no, non ci penso ai lettori…

Non è un dialogo, quindi…
No, no, proprio per niente, scrivere romanzi è qualcosa di molto infantile, di idealmente infantile. È banale da dire, ma c’è qualcosa nei romanzi che si rivolge direttamente al bambino che è restato dentro di noi. Lo dico in senso positivo. C’è un appetito di metafore incredibile nell’essere umano, da sempre. È incredibile, ci abbiamo combattuto sempre con questo appetito, dallo strutturalismo alla stessa Università…

Credo di aver presente, ho frequentato l’università in Francia…
È una roba da pazzi, l’Università in Francia ha tentato in ogni modo di uccidere il rapporto spontaneo e “infantile” con la letteratura.

È il modo migliore di ucciderla…
Sì, ma non ha funzionato. Il romanzo continua a esistere…

Forse perché la narrativa è la vera pulsione dell’Uomo? Non è un caso che uno come Stephen Jay Gould proponesse di chiamare l’Homo sapiens Homo narrator…
Certo! Ci sono delle arti che sembrano deboli, ma che non soffocano mai. Prendi il teatro. Il teatro è in crisi dai tempi di Sofocle. Nessun ha mai guadagnato tanto dal teatro, tranne qualche eccezione. Ma è come con me, che vivo di letteratura, non sono un caso interessante, sono una eccezione, quasi più unica che rara. La cosa interessante è che da Boccaccio in poi, per restare in Italia, le persone leggono romanzi in prosa. Come è da Sofocle, ma anche da prima, che tutti fanno teatro…

D’altronde quando siamo bambini e giochiamo a impersonare qualcuno stiamo facendo del teatro no?
Sì, sì, esatto! C’è questa potenza della percezione metaforica del reale che resiste a tutto. E scommetto che resisterà, esattamente come la letteratura.

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