Lavorare senza retribuzione è come bere dieci birre cattive, sgasate e molto alcoliche da soli al bar: il risultato è lo stesso – ti svegli la mattina e vuoi morire – ma hai mancato completamente lo scopo. È come essere pagati in mal di testa e non in Moment.
Anche scrivere per scrivere è un po’ come lavorare per lavorare: ci stai un tot di ore al giorno, magari sei pure soddisfatto di ciò che hai prodotto, ma alla fine nessuno ti legge, non becchi una lira e, guardandoti allo specchio, pensi che tuo padre in fondo aveva anche ragione a dir che la pensione è davvero importante.
E a proposito di pensioni sfumate, bentornati a “Molte birre con…”, la rubrica senza scopo di lucro ma con licenza di vendere alcolici. Dopo aver parlato di editoria americana con Giulio D’Antona, di criminalità organizzata con Simone Sarasso, di sciabattamenti del Novecento con Marco Rossari, di agenzie e riviste con Pastrengo, di racconti e Messico con Alessandro Raveggi, di Topolino e incomprensioni con Tito Faraci, di amore e antichità con Giorgio Fontana, di giochi di ruolo e bottiglie che esplodono con Vanni Santoni, di mummie e specifici letterari con Andrea Morstabilini, di messaggini e intrattenimento con Federico Baccomo e di praticamente qualsiasi cosa con la cittadinanza di Ivrea, oggi è il turno di Daniele Zito, scrittore multiforme e genio dell’informatica e dei centri sociali, autore di Robledo (Fazi). Il suo libro è un finto reportage del finto giornalista Michele Robledo che ha scoperto un’organizzazione sotterranea del lavoro per il lavoro (LPL), persone che lavorano gratis, senza dire niente a nessuno, e che seguono una sorta di percorso di liberazione dal lavoro che si conclude con gesti estremi.
Il nostro gesto estremo è stato rimanere nel fichissimo Caffè Chillout di Ivrea, con la birra dentro di noi, la pioggia sulle nostre teste e l’impertinente obiettivo di Alberto Cocchi, il fotografo che ha il sole dentro.
Prima birra
Cominciamo piano: c’è chi dice che scrivere un libro senza un messaggio sia una pratica sbagliata, perché tutti gli scrittori dovrebbero scrivere per dire qualcosa. C’è anche chi dice che i libri, al contrario, non debbano avere un messaggio ma semplicemente una bella storia. Come la vedi, alla luce del tuo libro che, effettivamente, dice qualcosa?
A me i libri che hanno un messaggio non sono mai piaciuti, non tanto per la retorica, quanto perché hanno un’idea abbastanza distorta e ingenua di una verità da raggiungere, e dunque l’autore deve accompagnare il lettore verso quella verità. Certamente un libro con un messaggio aiuta a vendere, la letteratura consolatoria, quella che prova a ordinare il mondo, funziona molto di più. Detto questo, tutti i libri che mi hanno segnato sono quelli che non avevano un messaggio, né una forma chiara; quelli che hanno, cioè, una struttura che devia ciò che la società immagina come normale. Quelli che richiedono uno sforzo al lettore per tentare di ricostruire quella verità. Se c’è un messaggio nel mio libro, è: come si fa a costruire una bufala.
Il perno del tuo libro è il concetto del lavoro per il lavoro. Da un lato sembra un po’ implausibile – anche se la narrazione lo rende effettivamente plausibilissimo -, dall’altro potrebbe essere qualcosa di inscritto nel lavoro stesso, come se il lavoro prevedesse la sua perpetuazione. Insomma: un lavoro non retribuito si può ancora chiamare lavoro?
Non so voi, ma io sono circondato da persone che fanno tantissimi lavori per i quali non sono retribuiti. Io lavoravo all’università, che è il regno del lavoro gratuito, ma succede molto anche nella cultura, nell’editoria. Ci sono tantissimi comparti in cui il lavoro non retribuito è la norma. Se adesso entriamo da Yamamay qui davanti, io non sono davvero sicuro se la commessa che ci sta venendo incontro sia stipendiata o stia facendo un periodo di prova.
Il lavoro ha qualcosa dentro, come dici tu, che ti spinge a farlo senza pretendere niente, ed è una cosa innaturale, io non riesco a immaginarmi un leone che si fa il culo per prendere la gazzella e, appena l’ammazza, la porta a qualcun altro. Una forma di retribuzione ce l’aspettiamo sempre. E infatti si è cominciato a ragionare attorno all’economia politica della promessa: i lavoratori lo fanno gratis perché qualcuno gli promette che alla fine del loro percorso avranno la possibilità di combattere per raggiungere un posto più o meno fisso.
Io volevo raccontare questa cosa, cercando di distorcerla e rendendo la coercizione dietro al lavoro gratuito una scelta consapevole. Ho cercato di storicizzare la creazione di una bufala.
Tu sei chiaramente un pazzo perché il tuo libro ha un livello di invenzione impressionante: essendo un finto reportage, dev’essere finto tutto il resto, le citazioni, la bibliografia, le interviste, le conferenze stampa, tutto. Un lavoro mostruoso. Parlami della mattina che ti sei svegliato e ti sei detto: adesso lo faccio. E quante volte hai pensato: vaffanculo, scrivo un romanzo su due che si innamorano?
Il mio primo pensiero è stato che non volevo lavorare sul personaggio; non volevo scrivere la storia di un movimento, con un capo carismatico, la sua fidanzata, il traditore eccetera. Se l’avessi fatto, avrei finito molto più velocemente ma mi sarei sentito una merda. Anche adesso mi sento una merda, ma per motivi differenti.
Comunque, ho iniziato a scrivere come se fossi dentro quel mondo, tutto ciò che i membri di LPL si scrivevano tra loro, le lettere, le interviste. Poi mi sono accorto che quello era il modo migliore per raccontare la storia, perché tutti coloro che lavorano in maniera gratuita solitamente si vergognano di dirlo, addirittura si inventano di avere uno stipendio. Il guaio dei lavoratori non retribuiti non è solo la mancanza di una coscienza di classe ma piuttosto il fatto che in nessun modo cercano di raccontarsi, di dare una memoria di sé. Allora ho provato a vedere cosa succederebbe se queste persone lasciassero memoria di sé, una traccia documentale.
Ovviamente ho passato un sacco di tempo a dirmi: minchia, non si capisce niente. Mi stupisco ancora che Fazi l’abbia pubblicato.
Terza birra
Senti, ma Robledo l’hai scelto tu, come titolo? E da dove viene questo cognome?
Il mio titolo originale era effettivamente Robledo. Poi avevo deciso di chiamarlo Ghost Class Hero, per fare la paraculata e richiamare Working Class Hero, ma sono tornato alla decisione iniziale, perché dentro a questo libro alla fine c’è la storia di un uomo. Robledo l’ho preso dall’elenco telefonico, Michele invece l’ho aggiunto dopo ed è una piccola citazione del Michele che si è suicidato e ha scritto una lettera al ministro Poletti. Mi sembrava paradigmatico, di non lavoro si muore, e pure tanto, anche in Italia.
[Inizia a piovere fortissimo. La birra si annacqua. Entriamo dentro]
Qual è la cosa che ti ha divertito di più, nello scrivere Robledo?
Le conferenze stampa dei vice prefetti, del ministro, delle autorità. Io vengo da un’esperienza molto lunga dentro un centro sociale a Catania e ho visto tantissime conferenze stampa in cui i prefetti tentavano di raccontare versioni diverse dalla realtà dei fatti. E introdurre quel linguaggio e quell’ambiguità nel libro mi divertiva. I nomi sono quasi tutti veri, come i tic verbali. Tanto quelle sono persone che non leggono, non rischio che mi portino in tribunale.
La matrice terroristica del romanzo è venuta dopo? Magari il libro poteva funzionare anche senza. Aggiungendola hai virato un po’ la direzione?
La matrice terroristica deriva dalla mia esigenza di inserire anche i morti sul lavoro. Queste persone diventano statistica solo quando hanno un contratto, se non ce l’hanno non esistono. Volevo dare un senso a queste morti, creare una bufala che le integrasse. Poi mi ha preso un po’ la mano e ci sono anche veri e propri suicidi, che magari non sono mai davvero successi. Ma è plausibile che una persona di cinquant’anni che viene licenziata decida di togliersi la vita per fare un gesto politico. L’autoimmolazione per raccontare una storia.
Sembra che ormai siamo vicini a un cambio di paradigma, legato all’idea dell’automazione del lavoro, del post lavoro, del reddito di cittadinanza. Ne hai tenuto conto, mentre scrivevi? Magari quando cambierà il paradigma, cambierà anche la narrazione attorno al lavoro.
Il paradigma secondo me è cambiato quando sono arrivati i contratti precari: un reddito intermittente a cui corrisponde un’identità esistenziale estrema. Ormai sono passati vent’anni ed è diventato un problema diffuso. Il welfare non esiste per queste realtà, la disoccupazione è solo per chi aveva un contratto. Tra un po’ il reddito di cittadinanza diverrà realtà, non c’è altro modo per riuscire a sussistere questa enorme massa di lavoratori disposti a tutto. Scrivendo questo libro mi sono accorto che quella che sembrava una componente marginale del lavoro, il lavoro gratuito, in realtà è una componente predominante. Interi comparti economici crollerebbero senza questo lavoro.
Seconda birra
Il tuo libro precedente è molto bello e molto diverso da questo. Secondo te nella carriera di uno scrittore dev’esserci un filo che lega tutte le sue opere? Esiste una specie di deontologia autoriale?
Penso che ci debba anzitutto essere un po’ di responsabilità verso le persone coinvolte nella scrittura. Capisco bene che mettere storie personali e di persone che ci stanno accanto rende la scrittura più vera, forse più efficace, ma pensando a certi romanzi di autofiction penso manchi un po’ di responsabilità. Più che nella tematica, un autore dovrebbe essere coerente nel rapporto con le persone che gli stanno accanto quando scrive. Questo libro parte da esperienze raccontate da lavoratori con cui ho parlato, e ho fatto anche una grande ricerca sulle morti sul lavoro. Volevo tentare di raccontarle trasfigurandole, senza essere irrispettoso.Ma continuiamo a parlare di scarsa retribuzione. Tu hai appena scritto un libro, dunque sai molto bene che i soldi guadagnati non varranno mai il tempo speso. Allora perché scrivi ancora? Perché si scrive ancora? Facci un film, piuttosto.
Scrivere è sicuramente un’esperienza masochistica. Una persona più o meno sana di testa non scrive libri. Secondo me, in qualche la lingua ci ha fottuti da piccoli, tutto deriva da questa lotta con la lingua, tentare di costruire frasi, fare cose non banali. Dopodiché si entra nella morsa degli anticipi, che non sono un cazzo, dello sbattimento per la promozione eccetera. Insomma, attorno ai libri c’è un sacco di lavoro non retribuito, una valanga.Tipo questa rubrica.
Almeno qui si beve la birra.Io penso che in questo libro tu ti sia inventato tutto senza inventare nulla. Qual è il tuo rapporto con la finzione? Secondo te qualcuno crede che Robledo sia esistito davvero? Ed è questo il punto?
Mi sono stupito quando ho letto una recensione che parlava del libro come se fosse vero. Ho messo tanti elementi per far capire che quello che scrivevo erano stronzate. Ma il nostro rapporto con la verità è mediato dalle lotte tra i vari revisionismi di quella verità. Sedici anni fa, ho partecipato al G8 di Genova; se uno dovesse farsi un’idea di quel G8 a partire da tutti i documenti e le interviste degli anni successivi, si farebbe un’idea costruita su più distorsioni della realtà, quella degli attivisti, dei black bloc, della polizia, dei media. La verità è un processo complesso che deriva dalla somma delle sue distorsioni. E il mio libro funziona così.Quarta birra
Nel tuo romanzo, hai detto come la pensi su un tema importante. Di solito, gli intellettuali, gli scrittori, diciamo, sono quelli che dovrebbero rielaborare la realtà e restituircela secondo il loro punto di vista. Scrivendo di morti sul lavoro e non di una storia d’amore, senti una responsabilità maggiore?
Ora faccio il siciliano: circa quarant’anni fa, Leonardo Sciascia ha iniziato a scrivere romanzi gialli dove non c’era un investigatore che scopriva la verità ma tutti gli altri che conoscevano benissimo quella verità e l’investigatore era l’unico che non sapeva cosa fosse successo, e tutta la sua investigazione era un non capirci un cazzo fino alla fine. Era una posizione forte su quello che stava succedendo in Italia in quel periodo, e di questa cosa non è rimasto nulla.
Tutti i libri che, come il mio, tentano di offrire un punto di vista sui temi che parlano delle condizioni di vita materiale delle persone, secondo me faticano a trovare spazio nell’opinione pubblica, tanto più oggi dove il dibattito è centrato su delle stronzate incredibili. Pensa alla discussione sulla possibilità di sparare a qualcuno se è giorno o se è notte. Questo tipo di dibattiti ha spostato l’opinione pubblica su posizioni molto difficili da scalfire.
Chiudiamo in bellezza: il fantacasting. A chi faresti interpretare Robledo?
Io lo farei fare a Flavio Insinna, che ha quella faccia lì che non significa nulla. Mi piacerebbe tantissimo anche Magalli, però.