TaccolaEconomia e riforme, il boom europeo è appena cominciato

Le previsioni di Carmignac prendono sul serio le riforme promesse da Juncker nel discorso sullo stato dell’Unione. L’analista Sandra Crowl: «Gli Usa sono alla fine del ciclo, l’Europa all’inizio. Prepariamoci a un euro ancora più forte. Ma le imprese esportatrici italiane sono in grado di resistere»

PATRICK HERTZOG / AFP

Ha ragione Jean Claude Juncker a dire, come ha fatto durante il discorso sullo stato dell’Unione, mercoledì 13 settembre, che «il vento è tornato nelle vele europee»? E quanto durerà la fase di crescita dell’economia europea? Una risposta netta è arrivata da un incontro con la stampa italiana organizzato martedì 12 settembre dalla società di risk management Carmignac: «gli Usa sono nelle fasi finali del ciclo economico. L’Europa è in una fase di crescita». Cosa vuol dire? Che in Europa la ripresa, che dura da cinque anni ma è diventata più consistente nell’ultimo anno, è destinata a durare. Che l’euro è destinato a rimanere sugli attuali alti livelli rispetto al dollaro o a rafforzarsi. Che questo, per chi esporta fuori dall’Eurozona, potrebbe essere un problema, anche se forse meno grave di quanto ci si possa aspettare. Due grafici rendono l’idea delle aspettative degli operatori economici, registrate nell’indice Manufacturing Pmi e Composite Pmi di Markit.


Il primo dei due grafici suggerisce che la storia va raccontata con uno sguardo alle due parti dell’Atlantico, per capire come si evolverà il cambio euro/dollaro. Sulla situazione degli Stati Uniti la visione di Sandra Crowl, membro del comitato investimenti della società, è tranchant: «Pensiamo che l’amministrazione Trump sia un caos (mess, ndr)», scandisce. «Trump non solo sta riuscendo a portare avanti alcuna policy domestica. Sta anche riuscendo a far ostracizzare gli Usa come un potenza riconosciuta dai partner tradizionali, per esempio con il ripudio del Ttp (Trans-Pacific Partnership), con le critiche alla Merkel in Germania, con le tensioni commerciali con la Cina. È un vero isolazionismo. Sta lasciando spazi vuoti nel commercio internazionale che vengono riempiti da Cina ed Europa». Sul fronte interno ci sono le divisioni presenti anche all’interno del Partito Repubblicano. «Non ci aspettiamo, a causa di queste divisioni, che la riforma fiscale promessa vada in porto entro la festa del Ringraziamento (data limite indicata dai Repubblicani perché la legge non salti, ndr). Gli investimenti in infrastrutture, che invece potrebbero avere un appoggio bipartisan, sono più lontane». Questo dovrebbe ostacolare una rifioritura dell’economia Usa che, in crescita – molto superiore all’Eurozona – da molti anni, mostra segnali di fine del ciclo economico positivo. Da cosa deduce questa parabola discendente la società di investimento? Da una diminuzione (per quanto non marcatissima) dei profitti delle imprese manifatturiere statunitensi e da una situazione peculiare dei consumi: tengono a tassi sostenuti ma a fronte di tassi di risparmio che sono in caduta libera. Il rallentamento statunitense suggerirebbe un rinvio dei tassi statunitensi, anche se la “view” dell’analista è quella di due rialzi che saranno comunque decisi della Fed, per prepararsi al prossimo “downturn”.


Il fronte europeo si mostra più in forma e l’andamento degli indici compositi Pmi mostra che c’è una convergenza al rialzo di Germania, Spagna e soprattutto Francia, che negli utlimi mesi mostra un’accelerazione, partita poco prima dell’elezione di Emmanuel Macron all’Eliseo

Sul fronte europeo l’andamento degli indici compositi Pmi mostra che c’è una convergenza al rialzo di Germania, Spagna e soprattutto Francia, che negli utlimi mesi mostra un’accelerazione, partita poco prima dell’elezione di Emmanuel Macron all’Eliseo.

Alla svolta europeista in Francia assegna un valore primario la stessa analisi di Carmignac. Il rinnovato asse franco-tedesco, a cui però partecipano anche Italia e Spagna, viene visto seriamente come il fattore in grado di sbloccare le riforme attese in Europa da molti anni. Sono le stesse priorità preannunciate nel programma di Macron e ribadite da Juncker nel suo discorso sullo stato dell’Unione: la creazione di un Fondo Monetario Europeo, l’istituzione di un ministro delle Finanze dell’Eurozona, il completamento dell’unione bancaria con la garanzia unica sui depositi. Solo i prossimi mesi, quelli successivi alle elezioni in Germania, diranno se questi passi saranno effettivamente rapidi o se tutto sarà rimandato alla prossima presidenza della Commissione europea. Se si pensa che solo un anno fa, sull’onda della Brexit e della crescita dei partiti populisti, la stessa sopravvivenza dell’Ue era messa in discussione, stiamo assistendo a un cambiamento nettissimo, con Macron nel ruolo di “game changer”.

Il tasso di crescita annualizzato è del 2,2 per cento per l’Eurozona. A queste condizioni viene definito “ridicolo” il tasso a zero attualmente applicato dalla Bce, soprattutto se si considerano il tasso di crescita e l’inflazione tedesca, vicina al 2 per cento. Dato però che è dato per certo il mancato innalzamento dei tassi per tutto il 2018 – come anticipato dal presidente della Bce, Mario Draghi, le previsioni di Carmignac si spostano sul Qe e sul rapporto euro/dollaro. Le previsioni sono invece di un taglio del Quantitative easing, dagli attuali 60 a 40 o 20 miliardi di euro al mese a partire dal gennaio 2018.

La moneta unica europea, secondo la società di risk management, è invece destinata a rafforzarsi ancora sul dollaro, almeno nel medio-lungo termine. «A oggi il valore è neutrale, perché è in linea con il valore medio del cambio da quando l’euro esiste, pari a 1,22 dollari per euro», spiega Sandra Crowl. Su quale valore l’euro potrà raggiungere, la società di investimenti non si sbilancia. Sono invece dati per probabili i contraccolpi che un euro ancora più forte potrebbe comportare per i Paesi con un’economia fortemente orientata all’export, come la Germania e «in misura minore, soprattutto per quanto riguarda la rappresentatività degli esportatori in Borsa», dell’Italia. «Quello del cambio è un problema – commenta l’analista a Linkiesta -. Ma questo sta accadendo alla fine di un periodo in cui le imprese hanno dovuto diventare molto più consapevoli dei costi operativi e delle reazioni dei loro mercati. Credo che gli esportatori europei e quelli italiani oggi siano più in grado di sostenere un euro che si sta potenziamente ancora per apprezzare, forse a un ritmo più lento con l’andare avanti. Il fatto che queste società abbiano meno indebitamento, più controllo dei costi e che possano beneficiare di più flessibilità del mercato del lavoro le rende più forti». L’Eurozona nel suo complesso dovrebbe reggere un apprezzamento dell’euro perché gran parte degli ordini che stanno spingendo la ripresa arrivano da dentro l’Eurozona stessa e perché ci sono segni di una ripresa globale, che coinvolge anche i Paesi emergenti, tornati su livelli migliori di quelli di un anno fa. La crisi nord-coreana ha invece un rischio che è difficile quantificare.

«Quello del cambio è un problema. Ma credo che gli esportatori europei e quelli italiani oggi siano più in grado di sostenere un euro forte. Il fatto che queste società abbiano meno indebitamento e più controllo dei costi e che possano beneficiare di più flessibilità del mercato del lavoro le rende più forti».


Sandra Crowl, Carmignac

È un quadro realistico, quello descritto da Carmignac? Secondo Giorgio Arfaras, direttore della Lettera economica del Centro Einaudi, lo scenario è condivisibile, anche se bisogna ricordarsi dei numeri. «L’economia europea accelera e quella Usa decelera, ma stiamo parlando di una crescita europea attesa del 2,5% contro un 2% di quella statunitense». Per capire cosa potrà succedere nei prossimi mesi sono due le variabili da considerare: i tassi in Usa ed Eurozona e l’impatto della riduzione del Qe. Partiamo dai tassi. Se l’economia Usa decelera, è il ragionamento, difficilmente i tassi saliranno o lo faranno in modo significativo. In Europa, invece, i tassi saranno fermi a zero per tutto il 2018. In uno scenario in cui i tassi Usa fossero saliti verso il 3% e quelli europei fossero rimasti a zero, i capitali sarebbero andati verso il mercato statunitense (in particolare verso le obbligazioni) e questo avrebbe avuto come conseguenza l’apprezzamento del dollaro sull’euro. Questo probabilmente non succederà. Se la politica monetaria resta “muta” rispetto a ora, se l’economia europea cresce al margine più di quella americana e considerando il fatto che le Borse europee sono meno care di quella americana (ma questo è per certi versi un dato storico), conclude Arfaras, «ci dobbiamo aspettare uno spostamento al margine dei capitali verso le borse europee». Questo contribuirà a rafforzare l’euro, anche se la moneta si è già rafforzata negli ultimi mesi e potrebbe aver incamerato le aspettative per le dinamiche appena esposte. «Penso che ai valori attuali di 1,20 del rapporto euro/dollaro siamo in equilibrio. Dobbiamo considerare che l’80% dell’export dei Paesi europei avviene all’interno dell’Europa. Considero in buona parte un teatrino le preoccupazioni avanzate sui valori dell’euro».

La seconda variabile, quella del “tapering” del Qe, potrebbe avere meno impatti di quel che si potrebbe prevedere. Come ha spiegato il direttore della Lettera Economica in una recente analisi pubblicata da Limes e ripresa dal Centro Einaudi, la Bce potrebbe pensare a «una soluzione che preveda il congelamento del debito pubblico acquistato dalle Banche centrali negli anni di crisi». In pratica, la Banca centrale potrebbe rinnovare i titoli in scadenza in modo che non si abbia una pressione sui portafogli dei privati. «I titoli sarebbero perciò rinnovati, mentre le cedole in gran parte tornerebbero al Tesoro perché le Banche centrali, rafforzato il proprio bilancio, debbono rendere ogni surplus – ossia, i frutti del signoraggio – allo Stato». Questa situazione potrebbe durare anni. In ogni caso, anche qualora questo scenario non si avverasse, l’impatto sul debito pubblico di un maggiore rendimento dei Btp sarebbe inferiore allo scenario del 2011-2012, perché nel frattempo la durata media dei titoli è salito da 3 a 7 anni. Ci sarebbe del tempo guadagnato, da usare per tamponare eventuali crisi dovute anche a un quadro politico incerto dopo le elezioni della prossima primavera.

«Se la politica monetaria resta “muta” rispetto a ora, se l’economia europea cresce al margine più di quella americana e considerando il fatto che le Borse europee sono meno care di quella americana, ci dobbiamo aspettare uno spostamento al margine dei capitali verso le borse europee»


Giorgio Arfaras, Centro Einaudi

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