«Non c’è niente al mondo come George Saunders. Non è che non ci sia nessuno come Saunders, non c’è proprio niente. Non esiste niente che si avvicini così perfettamente alla realtà, al pensiero comune – quello intimo, quello vergognoso – come i i racconti di George Saunders». All’incirca 4 anni fa, proprio su queste pagine, Giulio D’Antona descriveva così l’autore di Dieci dicembre, uno scrittore maiuscolo, le cui short stories — che poi è un nome un po’ più cool per chiamare i racconti, formato letterario per eccellenza, bistrattato dall’industria editoriale — hanno conquistato milioni di lettori in tutto il mondo.
Bene, quattro anni dopo quello stesso George Saunders pubblica per la prima volta nella sua carriera un romanzo, Lincoln nel Bardo, edito questa volta da Feltrinelli, e anche questa volta, nonostante il cambio di formato, il ritratto di D’Antona tiene ancora alla grande. Perché anche questa volta, nonostante l’etichetta sia cambiata, Saunders è sempre lo stesso, uno che è in grado di stupirci e dimostrarci, per esempio, che se diamo per scontato che un romanzo sia qualcosa di ben determinato e riconoscibile, be’, ci sbagliamo.
In occasione dell’uscita di Lincoln nel Bardo, George Saunders è venuto in Italia, ha fatto presentazioni, ha partecipato al Festivaletteratura di Mantova, ed è proprio lì, nella cittadina lombarda che in vent’anni si è ritagliata un ruolo da capitale culturali d’Italia, che l’ho incontrato.
Saunders è un uomo gentile — “qualsiasi cosa farete, nella misura del possibile eccedete in gentilezza”, disse qualche anno fa in uno splendido discorso di fronte agli studenti della Syracuse University —, di quelli che sorridono con tutta la faccia, a cominciare dagli occhi, azzurri dietro un paio di occhiali leggeri, di quelli che ti ascoltano attentamente e riflettono prima di risponderti. Ma è anche un uomo semplice e umile, come tutti i Grandi con la maiuscola d’altronde, quelli che non hanno certo bisogno di guardarti dall’alto per farti capire quanto sono grandi.
«Quando l’ultimo libro è andato alla grande ho pensato “Ottimo, non dovrò mai scrivere un romanzo, si fotta il romanzo!”. Poi però, quando mi sono messo a scrivere Lincoln è stato il materiale stesso a richiedere quella forma», dice, e ride, quando come prima domanda gli chiedo quello che tutti gli devono aver chiesto da quando è uscito Lincoln, ovvero: “Come mai dopo una carriera di racconti ha scritto un romanzo?. Ma Saunders sa stupire sempre, e anche qui puntella la sua uscita ironica con qualcosa che non mi aspettavo: «Mi era già capitato di iniziare storie che sembravano poter diventare romanzi, ma che poi sono finiti a essere racconti. Per come sono fatto ho sempre cercato di tenere a bada le storie che tendevano ad allargarsi e farle restare short stories. In questo caso mi sono detto che avrei cercato di essere il più breve possibile, ma a un certo punto la storia ha preso il sopravvento. Per questo sono sempre sospettoso su questa tendenza».
Ma come si fa a tenere a bada una storia?
È facile. A un certo punto pensavo “Uh, un romanzo” e mi venivano gli occhi a forma di dollaro, poi però ogni volta che mi accorgevo di scrivere senza disciplina, sentivo la storia che mi sfuggiva dalle mani e la domavo.
Ha parlato di occhi a forma di dollaro… Perché gli editori se gli proponi dei racconti restano freddi, mentre se parli loro di romanzi gli si vedono i dollari negli occhi?
Anche questa è facile: perché ne vendono di più. Qualche tempo fa ne parlavo con un amico scrittore che scrive sia romanzi che racconti e, parlando schiettamente, gli ho chiesto proprio questo: “che differenza c’è in termini di vendita?”
Che ha risposto?
Quattro a uno. Se scrivi un romanzo, in America, ne vendi quattro volte di più rispetto a una raccolta di racconti.
Quindi è una questione solo commerciale?
No, così sarebbe troppo semplice. Io credo che il romanzo sia una porta molto più facile da attraversare per i lettori. Non è un caso che i racconti abbiano un pubblico composto in gran parte da lettori forti, abituati a forme narrative più complesse, ma soprattutto allenati a fare più fatica, a entrare e uscire dalle storie con più disinvoltura. In ogni caso, lo confesso, non sono ancora convinto al cento per cento che Lincoln nel Bardo sia veramente un romanzo.
Come mai ha scelto questa strana struttura, che spezza di continuo la narrazione mettendo le indicazioni bibliografiche e i nomi dei personaggi che parlano?
Non mi piace molto essere convenzionale e non volevo usare una forma narrativa classica, una terza persona autoritaria che sapeva e vedeva tutto. Ho pensato che fosse più interessante spezzarlo in monologhi, mettere i punti di vista dei diversi personaggi e le loro voci. Facciamo un esempio: mettiamo che ora entri un uomo con una pistola in libreria. Ognuno di noi, raccontandolo, avrebbe una sua versione e la verità, se esiste, è proprio la somma di tutte quelle versioni, non certo quella in terza persona di un dio narratore.
Come le è venuta l’idea?
Uno dei miei studenti una volta mi ha scritto una mail in cui mi diceva: “se scrivessi mai un romanzo me lo immaginerei come una raccolta di monologhi”. Quando l’ho letto ho sentito tic in testa e mi son detto “Oh sì… un pugno di monologhi che si intrecciano… interessante…”.
Si parla molto di verità di questi tempi, probabilmente perché sta emergendo il fatto che non esista più una verità oggettiva, ma tante verità soggettive, cosa ne pensa?
Credo che prima di tutto dovremmo usare due parole distinte quando parliamo del concetto di verità perché ne esistono di due tipi. Se qualcuno mi ruba il telefono, questo fatto è una verità, diciamo del primo tipo: il mio telefono è andato. Bye bye. Punto. Ma quando parliamo del secondo tipo di verità, che può essere quella relativa a una esperienza complessa, ci accorgiamo c’entra invece proprio con una sorta di sintesi delle soggettività.
Ovvero?
Prendiamo un esempio banale: se andiamo in tre a mangiare in un ristorante, la verità sulla nostra serata non esiste. Ma se tutti e tre avessimo la possibilità di raccontarla, la conciliazione dei nostri racconti somiglierebbe di più a quel secondo tipo di Verità. Ed è questa, non tanto quella fattuale, ad essere messa in difficoltà nell’epoca digitale.
Perché?
Perché dentro qui — e indica il cellulare, che intanto, fortunatamente, continua silenzioso a registrare le nostre chiacchiere — c’è la tendenza a far dominare una voce su tutte altre e il discrimine non è più la qualità, come nel mondo scientifico, ma la quantità. Per esempio, quando Trump diffonde su internet le sue “post verità” ha dietro centinaia se non migliaia di account che gli fanno da megafono. È così che diventa “verità”.
A proposito di presidenti, visto che ha messo al centro del suo libro un presidente, non posso non chiederle di Trump. Secondo lei prima o poi qualcuno lo userà come protagonista di un romanzo?
Per forza! (ride) A me piacerebbe moltissimo usarlo anche subito se fossi abbastanza bravo per farlo! Scherzi a parte, quando vedevo all’inizio Trump pensavo che fosse uno spuntato fuori dal nulla, un pazzo solitario, e quindi pensavo che la sua elezione sarebbe stata impossibile. Poi, settimana dopo settimana, i sondaggi cambiavano, ma nessuno di noi capiva come fosse possibile. Ma la cosa peggiore era che nessuno riusciva a capire che non si trattava di un freak, ma che era l’incarnazione di un carattere americano.
In che senso?
C’è un bellissimo libro che si chiama “Stamped from the Beginning”, che è una storia dell’idea di razzismo, non solo in America. Parte dal quattordicesimo secolo e spiega da dove sono nate le idee razziste. Quando leggi la parte relativa all’America capisci che il razzismo è una leva che i nostri politici hanno sempre usato, chi più chi meno, per essere eletti. Quindi Trump è giusto una esagerazione, una macchietta di una tendenza che è sempre esistita negli Stati Uniti. La cosa terribile è che non lo sapevamo e non ce ne siamo accorti.
Come dovremmo comportarci per fargli fronte?
Partiamo dal presupposto che Trump con i suoi discorsi provoca continuamente. E anche che la tentazione di rispondere e finire invischiato in quei discorsi è sempre molto forte. Ma l’errore in cui non dobbiamo cadere è proprio quello di prestagli troppa attenzione.
Lei ha seguito per il New Yorker alcuni comizi di Trump quando ancora nessuno si aspettava di vederlo eletto, che effetto le faceva?
Sì, ho scritto qualche articolo per il New Yorker all’inizio della campagna. Ed era quasi un divertimento. Quando andavo ai suoi comizi ci trovavo personaggi allucinanti, ma anche gente normale Poi con il tempo quell’accozzaglia di gente si è rivelata un movimento.
Non se lo aspettava?
No, per niente. Ma avrei dovuto. Avrei dovuto unire i puntini, avrei dovuto capire che quella gente era più normale di quanto pensassi, era gentile con me, aveva tutta una serie di questioni vere a cui la politica non aveva risposto. E io non capivo. C’era gente che mi diceva “Ci sono troppe regole!”, ma io che ne sapevo, sono uno scrittore, a me nessun dà delle regole. E si lamentavano che nessuno gli aveva mai dato retta, e avevano le loro ragioni.
Possibile che dopo Obama avete pensato che fosse andata, che il vecchio spettro conservatore fosse tramontato?
Sì, questo fa parte dello scetticismo di molti liberal americani. Anche ora, a Charlottesville, c’erano dei nazisti e la gente normale la prendeva come se fosse Halloween. Non mi fa piacere dirlo, ma il tema del razzismo in America è molto forte e temo che la presidenza Obama abbia avuto anche degli effetti negativi, nel senso che ha messo paura a quelle persone. È gente che non riesce a capire Obama e che non lo poteva sopportare, e quando gli chiedevi come mai, loro ti rispondevano che non lo sapevano, ma che comunque non lo sopportavano. È così che è nata questa spinta reazionaria e nazionalista, dal fatto che questa gente si è ritrovata un presidente nero, un incredibile, intelligente, brillante e ragionevole presidente nero, una cosa che non potevano nememno immaginare e che quindi non potevano sopportare.
Come possiamo far fronte a questa ondata di razzismo e nazionalismo, che sale anche in Europa, simile per certi versi a quella che settanta anni fa abbiamo combattuto con le armi?
Una cosa importante è riconoscere che questi sentimenti fanno parte della natura umana e non vengono mai sconfitti, tendono sempre a tornare a galla. Non ci deve sorprendere quando riemerge. Dopo i fatti di Charlottesville, a San Francisco è stato indetto un raduno di nazisti e, come reazione, ventimila persone sono scese in piazza a dire “anche no”. E li hanno zittiti.
Le persone normali devono prendere coraggio quindi e tornare a schierarsi?
Sì, perché in realtà quasi tutti quei suprematisti in fondo sono dei codardi e infatti la maggior parte di loro, quella volta a San Francisco, sono tornati nelle cantine da dove venivano. Quindi credo che, soprattutto negli Stati Uniti, la gente contraria deve avere il coraggio e la fiducia di scendere in piazza, divertirsi, ridergli in faccia, pacificamente. Mi sembra molto più strategico. Anche perché sono pochi i razzisti veri, sono una frazione molto ristretta della popolazione. Basta schierarsi, senza paura, e spariscono. Non sono dei cuor di leone.
Ma dov’erano in tutti questi anni?
Questa è la cosa che è venuta meglio a Trump, invece di allontanarli ha fatto finta di niente, ma sotto sotto voleva affascinarli. Ogni volta che parlava di criminalità in campagna elettorale ammiccava a questa gente, loro l’hanno capito e si sono rifatti coraggio. Questo tra l’altro credo che sia uno dei maggiori effetti collaterali di internet: permette a questa gente di uscire dalle cantine in cui si erano rinchiusi e che una volta fuori capiscono di non essere da soli.
Cosa succederà nei prossimi mesi?
Io in ogni caso resto ottimista. Forse lo sarò troppo, ma non possiamo dimenticarci che solo il 26 per cento degli americani ha votato Trump. Un quarto, è tutto. E ora, dopo quasi un anno dalle elezioni, sono anche meno, addirittura al 18 per cento, dicono.
Anche se il fenomeno Trump si sgonfiasse del tutto, le loro istanze dove andrebbero a finire?
Questo è un tema importante. Io vengo da una famiglia della working class, quello è il mio retroterra familiare e culturale. E per anni ho scritto del fatto che la working class americana era in crisi, che la ricchezza andava tutta verso l’alto. È come se nella piramide sociale tutto l’ossigeno stia andando verso l’alto e questa gente che sta alla base sta letteralmente soffocando. Questa situazione ha diffuso il panico nelle classi di lavoratori bianchi. Trump lo sa bene e ha puntato tutto su di loro, che infatti hanno risposto. È una situazione molto complicata, anche perché il tema della distribuzione senza senso della ricchezza è il vero problema. Il quadro generale ci dice inequivocabilmente questo da anni. Mi sembra proprio una situazione esplosiva, anche se io in fondo sono solo uno scrittore, non un politico.
Che cosa pensa dell’esperienza di Bernie Sanders?
Lo adoro.
Come si spiega il suo successo, soprattutto tra i giovani, un successo tra l’altro replicato in modo simile da Jeremy Corbyn in Gran Bretagna. Non è un paradosso che dei politici vecchi, con discorsi sostanzialmente anch’essi vecchi, stia riuscendo a coinvolgere i giovani?
Io credo che, almeno nel caso di Sanders, lui conosce la propria storia, riesce a contestualizzare i problemi dei giovani sul lungo periodo e la sua visione viene percepita come onesta, giusta. Sostanzialmente dice che la tua generazione in America sta venendo sfruttata dalla mia generazione. E i giovani lo ascoltano perché lo vedono sulla loro pelle, a partire dai debiti immensi che devono fare per studiare e che sanno che faranno molta fatica a pagare. O ancora, quando dice che l’America deve garantire l’eguaglianza di tutti i suoi cittadini tutti coloro che appartengono a una minoranza, che sia la comunità LGBT o quella ispanica, o quella afroamericana, lo ascoltano e credono in lui. Le sue idee sono molto semplici e giuste, e hanno presa sulla gente perché a differenza di quel che dicono gli altri politici, le sue parole hanno riscontro nella vita della gente. Confesso che ancheper me, che ho una certa età, i suoi discorsi fanno bene. Quando lo sento parlare mi viene proprio da dire “Ecco! Finalmente! Grazie!”. Non dice cazzate, non si maschera dietro i niente, parla semplice, chiaro e diretto.
Il discorso di Sanders e quello di Trump hanno qualcosa di simile?
In fondo sì. Entrambi fanno leva su ingiustizie che realmente esistono, a partire dallo sbilanciamento della distribuzione della ricchezza. È divertente il fatto che quando chiedi a Trump cosa pensa di Saunders lui dice sprezzante “È un socialista”, come se fosse una cosa negativa. Certo, in America per molti è ancora il male. Ma credo che nella sua esperienza sia stata molto importante.
Ci sarà un seguito a questa esperienza? Sanders sarà probabilmente troppo vecchio per candidarsi al prossimo giro. Esiste chi gli succederà?
Spero proprio di sì. Questo è il grande tema all’interno dei democratici negli Stati Uniti. Nessuno lo può sapere. Io credo che però tutto questo entusiasmo che ha generato nei giovani darà dei frutti. È quello il futuro, mentre Trump è un vecchio, ha idee da vecchi e parla ai vecchi, non durerà. I sondaggi dicono chiaramente che i giovani sono molto più aperti, molto più di sinistra dei loro genitori. Uno come Trump è superato dalla storia. Il problema è capire quanti danni potrà fare.
Ecco, questa è una bella domanda: quanti danni potrà fare?
Quattro anni sono lunghi. I danni che può fare sono incommensurabili. Ma io credo che sarà lui stesso con la sua incapacità a dimostrare di essere un pericolo. Lo sta già facendo, e quando sarà chiaro a tutti gli americani che le sue politiche fanno male al Paese, sarà finito. Sono convinto che sia molto meglio stare tranquilli e lasciarlo fare piuttosto che cercare, per esempio, di tirarlo giù. In quel caso non possiamo sapere quale sarebbe la reazione dei suoi elettori, probabilmente urlerebbero al complotto e sarebbe ancora peggio.
Tornando alla letteratura, in un mondo come quello di cui abbiamo appena finito di parlare, che ruolo hanno i libri e gli scrittori, che fino a qualche decennio fa sarebbero stati al centro della società, ma che ora è sono totalmente margini?
Io credo che non sia un problema. La letteratura non credo che abbia nulla da temere dalla concorrenza di altri media narrativi. Alla fine i libri sono il miglior modo di condividere empatia. Certo, è vero, la lettura è in calo, ma tornerà. Il nostro compito potrebbe anche essere semplicemente quello di non far spegnere la sua fiammella, la sua magia, di farla sopravvivere per quelli che verranno dopo di noi. Ne avranno bisogno.
Un po’ come i monaci che nel medioevo copiano libri per i posteri?
Sì, qualcosa del genere. Con Lincoln nel Bardo sto girando parecchie città nel mondo e incontro sempre un sacco di gente. Grandissimi lettori, voraci, appassionati. Credo quindi che sia ancora forte il cuore di quella comunità e che non smetterà di esistere.
A fronte del successo delle serie televisive qualcuno sta iniziando a parlare di una sorta di dittatura della trama?
Sì, capisco cosa intendi ed è vero: la televisione sta dimostrando che quando si parla di trama non ci sono rivali. Però secondo me potrebbe essere un bene, potrebbe togliere quel peso alla letteratura.
In che senso?
La specificità della letteratura non è la trama, è un’altra cosa. Se faccio un tuo ritratto scritto posso raccontarti da dentro: i tuoi pensieri, le tue paure, e tutto il resto. Faccio emergere la tua figura in tre dimensioni. La trama non è niente a quel punto. La letteratura può andare molto oltre, mi permette di portare il lettore dentro i personaggi.
Mi fa piacere che riusciamo a finire questa chiacchierata con un messaggio positivo…
Ah! (Ride) Se vuoi ho la versione pessimista di questa teoria…