“Piccolo pazzo” o “Piccolo uomo-razzo” contro “Vecchio rimbambito americano mentalmente instabile”. Così oramai si chiamano reciprocamente il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e il dittatore della Nord Corea, Kim Jong Un. Già questo dovrebbe forse far capire che la situazione è drammatica ma non è seria. L’escalation di insulti che accompagna, a volte anticipa e a volte segue, lo sfoggio di potenza bellica rende plasticamente la distanza tra la propaganda degli attori coinvolti e la realtà strategica e tattica di quell’angolo del Pacifico.
A meno che non ci si trovi alla vigilia di uno di quei momenti della Storia in cui ogni barlume di razionalità viene annichilito dalla follia di pochi uomini al comando – sembra improbabile e avrebbe dell’incredibile -, le possibilità di una guerra atomica tra Washington e Pyongyang stanno a zero. Anche le possibilità di un intervento militare americano mirato, di uno strike preventivo insomma, sono molto basse per non dire quasi inesistenti.
Come abbiamo detto anche in passato, uno strike preventivo sui siti nucleari nord coreani porterebbe con sé molti rischi. In primo luogo quello di una retaliation atomica sui Paesi vicini – Sud Corea in primis – qualora l’intero arsenale non fosse del tutto distrutto. Poi ci sarebbero i rischi legati all’ambiente e alla popolazione civile, nel caso i bombardamenti mirati causassero una dispersione del materiale radioattivo. Infine si avrebbe la quasi certezza di una violenta, e potenzialmente molto dannosa, reazione militare convenzionale di Pyongyang. Il regime nord coreano ha migliaia di pezzi di artiglieria lungo il confine con la Sud Corea,in caso di attacco l’area metropolitana di Seul – dove vivono circa 25 milioni di persone – sarebbe investita in pieno dalla prima ondata della ritorsione di Kim Jong Un.
Un intervento che volesse scongiurare il rischio di un’ecatombe di civili sud coreani dovrebbe allora decapitare il regime di Pyongyang e distruggerne anche l’apparato bellico convenzionale. Uno sforzo importante anche per gli Usa, che soprattutto aprirebbe una gravissima crisi con la Cina. Se gli Usa decidessero infatti di invadere la Nord Corea, anche solo per “stabilizzarla” dopo il rovesciamento di Kim, Pechino farebbe probabilmente di tutto per scongiurare il rischio di avere le basi americane ai propri confini (ad oggi la Nord Corea fa da Stato cuscinetto con la Sud Corea, dove gli Usa hanno circa 30 mila uomini e svariate installazioni militari). Se Washington, al contrario, una volta deposto il regime non si curasse del “dopo” e non avesse alcuna exit strategy concordata coi cinesi, il dramma di una popolazione civile lasciata a se stessa e senza un vero tessuto economico ricadrebbe sulle spalle della Cina, che ovviamente non gradirebbe.
A monte di queste considerazioni tattiche ce n’è una di più ampio respiro, che fa ritenere agli analisti improbabile un attacco americano: Kim vuole la bomba atomica per non doverla usare. Il regime nord coreano ha sviluppato capacità nucleari a partire dal 2003, quando abbandonò il trattato di non proliferazione e i conseguenti controlli dell’Aiea. L’anno prima il presidente George W. Bush aveva inserito Pyongyang nel cosiddetto “asse del male”.
È per evitare la fine di Saddam Hussein (anche lui membro dell’asse) o di Gheddafi che Kim Jong Un ha insistito sul programma atomico, nato in un’ottica difensiva, di deterrenza. Il rischio che sia lui il primo a usare un’arma nucleare, garantendosi così una certa distruzione sua e del suo Paese, è inesistente.
È per evitare la fine di Saddam Hussein (anche lui membro dell’asse) o di Gheddafi che Kim Jong Un ha insistito sul programma atomico, nato in un’ottica difensiva, di deterrenza. Il rischio che sia lui il primo a usare un’arma nucleare, garantendosi così una certa distruzione sua e del suo Paese, è inesistente. Gli Usa dovrebbero quindi attaccare per primi, senza che esista una concreta immediata minaccia per la loro sicurezza. In più col rischio che oramai sia troppo tardi per impedire una qualche ritorsione atomica da parte di Pyongyang.
Se le minacce e gli apparenti preparativi di una guerra con tra Usa e Nord Corea sono per il momento più che altro un teatrino che Trump e Kim Jong Un inscenano a beneficio delle proprie opinioni pubbliche, la militarizzazione del Pacifico invece è una questione molto seria. Secondo gli esperti quest’area sarà il fulcro della futura competizione strategica mondiale. Qui si affacciano gli Usa, la Cina e la Russia. Qui Pechino sta costruendo la sua cintura di isole artificiali, tra le Paracel e soprattutto le Spratly, proprio allo scopo di limitare la proiezione di potenza strategica di Washington.
Qui il Giappone, Paese a cui fu imposta proprio dall’America una costituzione ultra-pacifista all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, ha cominciato una corsa al riarmo con la benedizione degli Usa. Le spese militari di Tokyo sono ai massimi storici e il premier Shinzo Abe sta martellando l’opinione pubblica, non senza risultato, sulla necessità di interpretare il “pacifismo” costituzionale giapponese in modo più elastico, prevedendo e prevenendo le possibilità di attacco da parte della Nord Corea e arrivando preparati a eventuali futuri conflitti che dovessero esplodere nella regione.
Anche il Vietnam, antico avversario ma attuale alleato degli Usa, coinvolto oltretutto in una disputa con la Cina per le isole artificiali nelle Spratly, sta aumentando significativamente le spese militari: negli ultimi dieci anni sono quadruplicate, ammontando oggi a quasi 5 miliardi di dollari, pari all’8% della spesa pubblica. Le Filippine, a loro volta, stanno aumentando le spese militari e ulteriori acquisti di materiale bellico sono previsti per i prossimi anni. Oltretutto la linea strategica del Paese desta non poche preoccupazioni da quando è stato eletto il controverso presidente Duterte. Da storico e affidabile alleato degli Usa, Manila col nuovo presidente ha promesso di avvicinarsi alla Cina e allontanarsi da Washington.
Una crisi finita sottotraccia dopo l’elezione di Trump – meno ostile a Duterte e ai suoi metodi brutali rispetto a Obama – e soprattutto con la crisi nord coreana, ma che sarà nel futuro fondamentale da risolvere. Secondo alcune fonti diplomatiche, piuttosto che perdere le Filippine a vantaggio della Cina, gli Usa sarebbero pronti ad architettare un colpo di stato. Ma la prospettiva non sembra ancora abbastanza vicina per prendere misure tanto drastiche. Anche l’Australia, altro alleato degli Usa, si sta attrezzando militarmente per il nuovo scenario da “nuova guerra fredda” che secondo molti attende il Pacifico. Non solo, come gli altri Paesi, sta aumentando la propria spesa militare, ma sta anche puntando ad avere armamenti avanzati. Ad esempio ha di recente commissionato alla Francia la costruzione di 12 sottomarini di ultima generazione.
Questa corsa agli armamenti degli alleati degli Usa nasce soprattutto dall’incertezza su come evolveranno i rapporti tra Cina e Stati Uniti, e dalla sfiducia che possa nascere qualcosa di meglio di una pax armata o di una guerra fredda. Quella sarà “la questione” dei prossimi decenni, e qui probabilmente avverrà la contesa per l’egemonia globale nel futuro. Le sparate di Trump e di Kim, e in generale la questione del nucleare nord coreano, sono ancillari rispetto a questo Grande Gioco nel Pacifico. Vengono sfruttate dai vari attori per rafforzarsi o per indebolire gli avversari, ma è improbabile se non impossibile che degenerino. C’è da scommettere che a Pechino si staranno più interrogando sul come sfruttare a proprio vantaggio lo smacco – perché di questo di tratta – di aver lasciato che Pyongyang assurgesse al rango di potenza nucleare, che non sulla prospettiva di un prossimo attacco statunitense contro Kim.