Nelle scommesse il banco vince sempre, la banca no. Anzi, continuare a scommettere che i clienti più rischiosi si riprendano, e quindi continuare a prestare loro soldi, è una strada che porta dritta al fallimento delle stesse banche. Premia molto di più tagliare i ponti con i creditori più rischiosi, a costo di scontentare il territorio di riferimento. A dimostrare questa tesi è uno studio pubblicato dallo statunitense National Bureau of Economic Research, che si è concentrato proprio sugli istituti di credito italiani. Gli autori sono l’economista della Banca d’Italia Emilia Bonaccorsi di Patti e il docente all’University of Chicago’s Booth School of Business Anil Kashyap.
I risultati possono sembrare l’elogio del credit crunch che mette in ginocchio le imprese e le Pmi in particolare. Ma le conclusioni dei due autori dicono altro: più che ridurre il credito tout court è molto più efficace tagliarlo solo a chi è più a rischio. Solo che, lo abbiamo capito nelle tante crisi bancarie degli ultimi anni, alcuni clienti hanno avuto credito a dispetto di bilanci da stracciare e le relazioni (imprenditoriali, quando non politiche) hanno avuto la meglio sui comitati rischi saltati a piè pari. Alla lunga tutto questo non paga.
Nel paper “Which Banks Recover From Large Adverse Shocks?” a essere prese in esame sono state 110 banche italiane (sono escluse le Bcc, quelle straniere e quelle piccolissime) andate in difficoltà tra i primi anni Novanta e i primi anni Duemila.
Il punto di partenza è che anche i primi anni Novanta furono complicati per gli istituti di credito. La recessione del 1992-1993 portò a un’impennata dei crediti deteriorati (raggiunsero il 9,4% dello stock, un valore che peraltro oggi sarebbe invidiabile) e moltissime banche andarono in crisi. Tra il 1987 e il 2004 si contarono 151 casi di banche che ebbero uno “shock di profitto”. La ricerca ha seguito le evoluzioni di 110 di queste, restringendo il campo al 1988-2002 ed escludendone dieci scomparse nello stesso anno dello shock di profitto. Il risultato è che solo il 37% degli istituti riuscì a riprendersi entro quattro anni recuperando i livelli di profittabilità precedenti allo shock. Quale fu il discrimine tra chi rialzò la testa e chi no? Lo studio ha individuato e pesato diversi fattori in cui le idiosincrasie dei gestori delle banche contarono poco, come la debolezza nazionale e regionale (il Sud fu molto più colpito del Nord durante la crisi del 1992-1993) e il fatto che la possibilità di ripresa sia molto influenzata dall’entità del calo di profitti iniziale.
Continuare a scommettere che i clienti più rischiosi si riprendano, e quindi continuare a prestare loro soldi, è una strada che porta dritta al fallimento delle stesse banche. Premia molto di più tagliare i ponti con i creditori, a costo di scontentare il territorio di riferimento
Ma le conclusioni sono nette: la ripresa dipende anche da fattori che la banca può controllare e, tra questi l’abilità di aggiustare il portafoglio di crediti segna una linea di demarcazione tra chi è riuscito a riprendersi e chi no. I dati che abbinano le banche e chi ha preso a prestito «suggeriscono che un’importante ragione del perché le banche che si sono riprese hanno gestito meglio i default è che sono state più dure nell’estendere i crediti ai loro clienti più rischiosi». Invece, «le banche con un incentivo a scommetere sul recupero (del creditore, ndr) sembrano essere state molto più generose con il credito verso queste società».
Dove lo studio non si spinge (ma lo ha fatto efficacemente un commento su Bloomberg) è nel dire che il comportamento auto-distruttivo delle banche in difficoltà ha molto a che fare con le i rapporti con i clienti. «C’è una ragione del perché le recenti crisi finanziarie hanno fatto più vittime tra le banche orientate agli stakeholder (ossia una rete di portatori di interesse più vasta degli azionisti, ndr) di quelle che semplicemente cercano il profitto – nota Bloomberg -: le cajas spagnole, le landesbank tedesche e le banche regionali italiane avevano tutte lunge storie con i propri clienti problematici. Connessioni profonde ed emozionali erano spesso coinvolte. I banchieri erano portati a ignorare i segni dei problemi che avanzano; essenzialmente avevano intenzione di affondare o nuotare con questi clienti». Come italiani abbiamo imparato fin troppo bene quali siano i rischi del credito facile elargito dalle banche popolari e non (come Mps e Carige) a clienti senza merito eppure privilegiati (anche quando si trattò di riscattare le azioni a prezzi irraggiungili per gli altri).
Dove invece la ricerca si spinge è nel chiedere alle autorità di vigilanza di rivedere i criteri dei propri interventi, qualcosa di significativo essendo una dei due autori una economista della Banca d’Italia. I regolatori, secondo il paper, tendono a prestare molta poca attenzione a come vengono gestiti i crediti rischiosi, preferendo concentrarsi sui rating dei cosiddetti CAMELS (capital, assets, management, earnings, liquidity and sensitivity to market risk). Eppure, dicono Bonaccorsi di Patti and Kashyap, ci sarebbero gli strumenti per tenere traccia di quali crediti ai clienti vadano male durante una crisi e di come una banca abbia reagito per gestire questi problemi. «Le riduzioni indiscriminate nella concessione dei crediti – è la conclusione – sembrano essere meno importanti rispetto a gestire l’estensione dei crediti ai clienti più rischiosi».
I regolatori tendono a prestare molta poca attenzione a come vengono gestiti i crediti rischiosi, preferendo concentrarsi su indici quantitativi su capitale, liquidità, sensibilità al rischio di mercato. Eppure, dicono Bonaccorsi di Patti and Kashyap, ci sarebbero gli strumenti per tenere traccia di quali crediti ai clienti vadano male durante una crisi e di come una banca abbia reagito per gestire questi problemi