C’è un virus che si sta diffondendo a macchia d’olio nella società occidentale facendola marcire da dentro. È un virus subdolo, che attacca la nostra capacità di strutturare un ragionamento, la nostra modalità di classificare le conoscenze e quella di valutarne l’affidabilità. In molti, improvvidamente, parlano di “post- truth age”, epoca della post verità, ma si sbagliano per superficialità, perché quella in cui viviamo è piuttosto l’epoca della post autorevolezza, post-authoritative, se vogliamo fare gli anglofili.
Quello che è venuto a mancare, infatti, non è la nostra capacità di capire che cosa sia vero e che cosa sia falso. Non dimentichiamoci che siamo figli della scienza, e che per la scienza la “vera verità” non esiste, ne esistono solo infinite approssimazioni. Quello che questo strano virus ci ha spazzato via è la capacità di capire di chi ci possiamo fidare, il saper distinguere tra una fonte autorevole e una non autorevole.
Che cosa significa? Sostanzialmente quello che abbiamo davanti agli occhi ormai ogni giorno. Significa che, in mancanza di capacità di discernimento su cosa sia affidabile e cosa non lo sia, siamo finiti in un vero e proprio loop cognitivo, un cortocircuito del pensiero che sembra poter spazzare via in pochi anni, se non forse in pochi mesi, tre secoli di pensiero scientifico che ci avevano permesso di uscire dal medioevo intellettuale della religione per farci finalmente uscire a riveder le stelle.
Non è un fenomeno nato da un giorno all’altro, ma se proprio volessimo cercare un momento in cui qualcosa si è incrinato fino spezzarsi, questo è probabilmente da ricercare nei mesi successivi al settembre 2001, quando, dopo il crollo delle Twin Towers, è iniziata a girare una teoria inquietante sugli attentati di New York, ovvero che l’attentato più sanguinoso della storia del mondo fosse in realtà home made, apparecchiato in casa dai vertici del potere per favorire se stesso. Quando la teoria si cristallizzò nella serie di film Zeitgeist fu l’inizio della fine, il momento in cui si vede la crepa sul muro allargarsi e diramarsi, poco prima del crollo.
«Un’idea è come un virus… resiliente». Quando, nel film Inception, Cobb, il protagonista interpretato da Di Caprio, porta la sua giovane aiutante Ariadne nel mondo che aveva costruito con Mal, la moglie morta suicidia anni prima, si trova a doverle spiegare il suo segreto. «Resiliente», continua, mentre camminano tra grattacieli enormi partoriti dalla fantasia di Cobb, «altamente contagiosa. E un’idea può crescere. Il più piccolo seme di un’idea può crescere e definire o distruggere il tuo mondo». Una frase che ci torna molto utile in questo discorso.
Mal si uccide perché quel virus, il primo tentativo riuscito di inception di Cobb per convincerla a tornare indietro da quel mondo incubotico che avevano sognato insieme per decenni, come un tarlo le aveva eroso la capacità di capire di chi e di cosa doveva fidarsi. Di se stessa e dei suoi sensi? Della propria razionalità? Mentre Cobb cerca disperato di convincere Mal che il mondo in cui sono tornati è la realtà e l’altro un sogno, Mal va in cortocircuito, non si fida e si uccide.
Il nostro tarlo è simile a quello di Mal. Milioni di persone ne sono state infettate. È un tarlo che ha la forma del dubbio, ma non di quello scientifico, che ti fa avanzare, di quello magico, che ti immobilizza, ti manda in cortocircuito e ti fa impazzire. Il complottismo è questa cosa qui. È un’idea che ti spiega perfettamente un mondo altrimenti troppo complesso. È un’idea affascinante, che fa tornare tutti i conti, ma che non solo non è provabile in nessun modo, ma, ancora peggio, funziona a cascata e, una volta innescato il meccanismo, tutto diventa complotto.
Non significa che la gente che crede alla teoria del complotto sia stupida, come non lo è Mal di Inception. È solo che se si cede ai sensi, alle proprie impressioni e al proprio percepito buon senso, si commette lo stesso errore di Mal, mettendo in dubbio qualsiasi autorità intellettuale (quelle politiche si devono sempre mettere in dubbio), coprendo ogni problema sotto la coperta morbida e calda del complottismo, che tutto sembra spiegare. Ed è la fine. Quella che vediamo fiorirci intorno, un mondo in cui la verità è totalmente soggettiva, e ognuno può credere alla qualunque. E i risultati ce li abbiamo intorno.
È difficile, forse impossibile, discutere con un complottista, perché ad ogni tentativo di complessità, usa la reductio ad complottum e manda tutto in vacca. Per fare uscire dal loop cognitivo i complottisti potrebbe esserci però un modo, un trucco che ricorda il primo inception di Cobb nel cervello della moglie. Dobbiamo instillare nei loro cervelli un’idea, un’idea che come tutte è resiliente, che sta lì e lavora. Qualcosa come un dubbio un dubbio disturbante. Magari un dubbio complottista.
A questo proposito, da qualche anno sta girando una teoria affascinante, ovvero la teoria del metacomplotto. Secondo questa teoria, il complottismo sarebbe esso stesso un complotto basato sull’inoculazione del virus complottardo nella società dal potere costituito che, spaventato dalla ascesa sempre più inarrestabile nel secondo Novecento di libertà e cultura, ha deciso di attuare questa soluzione finale e di scatenare una guerra intellettuale tra poveri.
D’altronde della diffusione della teoria del complotto ne beneficia proprio il potere costituito, non certo i complottisti, che intanto che il potere continua bellamente a fare i suoi porci comodi stanno a inseguire le farfalle cercando di dimostrare che nelle Twin Towers c’erano degli esplosivi americani. Il potere invece no, il potere ha tutto da guadagnare. Perché se è tutto complotto nulla è complotto, e mentre noi litighiamo sui vaccini o sulle Torri Gemelle, il potere e le classi dominanti hanno vita facile e la critica, qualsiasi critica, è morta sul nascere, schiacciata dal peso del complottismo, anche nei casi in cui in fondo qualcosa di vero ci sarebbe anche.