Ieri è morto Gastone Moschin, l’ultimo degli zingari, l’architetto Rambaldo Melandri di Amici miei, l’ultimo sopravvissuto di quella masnada di attori — che il set trasformò molto facilmente in amici — che grazie alla genialità di Mario Monicelli incarnò in due spettacolari film l’esatto momento dell’inizio della fine di una società, quella italiana, che a metà degli anni Settanta stava vivendo gli ultimi momenti di reale libertà prima di attraversare gli anni Ottanta senza uscirne viva.
Amici miei atto I e atto II sono qualcosa di più di due semplici commedie all’italiana. Un po’ per il sapore amaro delle risate che strappa, un po’ perché fu capace di mettere sullo schermo personaggi contraddittori, simpatici tanto quanto stronzi, coraggiosi tanto quanto pavidi, grandiosi tanto quanto minuscoli. Intervistato qualche anno fa dal Fatto quotidiano in occasione del trentacinquesimo anniversario del primo episodio del dittico (il terzo non me lo fate mettere nel mazzo, per favore), fu lo stesso Moschin ad ammetterlo: «è stato molto più documentario che film».
Se fosse uscito oggi, un film come Amici miei sarebbe stato distrutto, fatto a pezzi sia dalla critica, che lo avrebbe accusato indignata di sessismo, di politicamente scorretto, di blasfemia, di istigazione all’odio e al bullismo, di gratuita irriverenza contro qualsiasi cosa, sia dal pubblico, la cui indignazione della domenica e la cui ipocrisia pseudodemocratica non avrebbe mai potuto accettare l’anarchica libertà di quei cinque cazzoni patentati, cinque zingari irriverenti come il Melandri, il Sassaroli, il conte Mascetti, il Perozzi e il Necchi.
Se confrontiamo l’Italia del 1975 con quella del 2017 in molti di noi saremmo portati a dire, in piena sincerità, che ci sentiamo più liberi dei nostri nonni, che la società in cui viviamo è migliorata e che il progresso ci ha innalzato a quote più alte di umanità. Eppure, pensando alle avventure degli zingari e alla realtà che abbiamo intorno forse non è esattamente così. Forse aveva ragione ancora una volta Moschin quando disse, in quella stessa intervista: «Oggi apriamo la finestra e l’Italia, il mondo, non ci permettono nessuna zingarata, nessuno spiazzo di allegria. Non è più possibile, come invece avveniva in quel film, abbandonare per una attimo la quotidianità».
Questa Italia non è più un paese per Amici miei. Ma non certo perché di Monicelli, di Tognazzi, di Celi, di Montagnani e di Moschin non ce ne sono più. E no, non è nemmeno colpa di internet che uccide la spontaneità e ci rinchiude in casa, lontani anni luce dalle zingarate. Tutt’altro. Questa non è più un’Italia da Amici miei perché qualcosa ha ceduto all’interno della società e di noi stessi. Siamo diventati sulla carta più liberi e laici, ma dentro siamo ancora più baciapile di prima. Ci crediamo più aperti, più progressisti, ma siamo i peggio filistei. Pensiamo che la società sia più paritaria e più tollerante, ma siamo maschilisti e razzisti ancor più dei nostri padri e dei nostri nonni.
Ma, ancora di più, misuriamo la nostra libertà sulle possibilità che ci vengono date per trasgredire, ma non ci siamo accorti che ci hanno istituzionalizzato e burocratizzato anche la trasgressione. Se gli zingari potevano trasgredire era perché, oltrepassato il recinto della propria quotidianità entro la quale erano tutti dei professionisti affermati, la loro trasgressione era libera, vera, totale, naturale, istintiva, liberatoria.
Ora trasgredire non significa più nulla, è diventata pura imitazione di gesti d’altri. Non c’è più nessun recinto da scavalcare ridendo. Per questo Amici miei ci manca così tanto, perché è il ritratto di un’Italia che si sentiva ancora povera, ma che in fondo era ricchissima, un’Italia che non aveva paura della propria provincialità, ma che anzi, la sbandierava e ci giocava, in cui il dialetto toscano era la parlata della commedia, non di un’intera classe politica.
Ci sentiamo tutti più ricchi, più aperti, più liberi, ma siamo soltanto dei poveri con più soldi, dei carcerati rinchiusi in una gabbia talmente grande che non possiamo nemmeno più sognare di evadere.