Sbrigatevi, date un Nobel a Stephen King

Il 21 settembre 2017 il Re compie 70 anni e, dopo 43 anni di incessante lavoro, ha accumulato un numero impressionante di romanzi, racconti e saggi, dando vita a un intero universo in cui le nostre paure rimbomberanno per l'eternità: non basta per vincere un Nobel?

41 romanzi con il suo nome in copertina; 7 firmati con uno pseudonimo, altri 11 appartenenti a due cicli narrativi, 12 raccolte di racconti, altri 6 libri non direttamente associabili alla letteratura di finzione, e ancora, un numero quasi incalcolabile di riduzioni per il cinema e per la televisione dei suoi soggetti, numero paragonabile, osserva correttamente l’anonimo compilatore della sua pagina su Wikipedia, soltanto a gente come William Shakespeare, Agatha Christie e Arthur Conan Doyle. Se fossimo da un sarto, queste sarebbero le misure da prendere per determinare la forma delle migliaia e migliaia di pagine che Stephen King ci ha regalato in 43 anni di carriera.

Ma sarebbe una forma spuria quella che emergerebbe dal mero elenco matematico dei romanzi, dei racconti, dei saggi, delle pagine scritte con furia. Perché dentro questo spazio, che espresso in numeri sembra finito anche se immenso, non si può ignorare la folla di frammenti di altre storie — non di rado immaginabili come spunti per ulteriori romanzi — che puntellano la sua narrativa e che danno ai suoi milioni di lettori una sorta di vertigine.

È una dote questa sua incredibile molteplicità? Per i suoi lettori, milioni, certamente. Ma non per tutti. Per alcuni, infatti, Stephen King più che essere uno scrittore è una industria editoriale. Un’industria immensa, che se esistesse sul serio sarebbe interamente meccanica, simile a quelle raffinerie gigantesche fatte di labirinti di tubi, schiere di valvole di sfogo, affilati camini sbuffanti, contatori e fiammelle diaboliche vibranti notte e giorno.

È anche per questo — per l’accezione malsana che l’Accademia vede nel sostantivo “industria” quando associato al suo collega “letteratura” — che l’immenso universo narrativo di King è tuttora guardato di sottecchi da quelli che si autocelebrano essere i custodi delle Belle Lettere.

La verità è che Stephen King è uno scrittore talmente sanguinoso e vitale da sorvolare a un chilometro di distanza le crape della frigida Accademia

È tutto il contrario. Qualche giorno fa, Roberto Recchioni, sceneggiatore e curatore di Dylan Dog, ovvero uno che di incubi si è nutrito da tutta la vita e sa di cosa parla, ha scritto una cosa interessante su questo paradosso che affligge da tutta la vita il genio di Stephen King: «La maniera migliore per capire il grado di provincialismo culturale e mentalità da circoletto di una libreria indipendente è vedere come vengono esposti i romanzi di King. Se sono nascosti come una roba necessaria ma di cui vergognarsi, non dategli i vostri soldi. Se, invece, non ce l’hanno proprio, decollate e nuclearizzate».

Recchioni ha ragione da vendere e ha anche azzeccato il termine perfetto per indicare questo atteggiamento, invero — e per fortuna — molto più consueto tra gli Accademici che tra i librai: provincialismo culturale. E se siete di quelli che non si fidano di uno che “scrive fumetti”, allora magari vi fiderete di uno professore di Letteratura italiana, che incidentalmente è anche uno dei più grandi scrittori italiani contemporanei, Michele Mari, che a King dedica due scritti de I demoni e la pasta sfoglia (libro immenso, da avere) al Re.

Nei romanzi di Stephen King, scrive Mari nel frammento dedicato a un altro monumento della letteratura mondiale di tutti i tempi come H.P. Lovecraft: «la rappresentazione dell’orrore si coniuga, reificandosi, con la critica alla società americana e con un gusto classico dell’avventura». O ancora, in un pezzo invece dedicato tutto al Re: «C’è un così forte senso delle cose, in King, da dare alle sue storie una straordinaria concretezza, e quell’insidiosa familiarità da cui dipende in buona parte la nostra immedesimazione; ne scaturisce un orrore plastico, sodo, scevro dalle fumosità e dal misticismo proprio della cattiva letteratura fantastica».

La verità è che Stephen King è uno scrittore talmente sanguinoso e vitale da sorvolare a un chilometro di distanza le crape della frigida Accademia, al cui interno Mari è infatti una mosca albina e solitaria. Ma è comprensibile. Perché per questi tangheri che dividono ancora la narrativa in alto contro basso, uno come King, al pari di un altro immenso scrittore condannato alla reclusione nell’etichetta della “letteratura di genere” come Jack London, è un cortocircuito, è l’anello che non tiene e che fa svanire in polvere il tranquillizzante castello d’avorio da cui amano signoreggiare, ma che, al pari dei titoli di nobiltà e dell’unzioni del signore, è solo l’ennesima declinazione della difesa di un potere, in questo caso quello del dominio sul gusto.

In Stephen King c’è tutta l’umanità, con tutte le sue paure, con tutte le sue meschinità e grandezze, nascoste nell’ombra della normalità e nella quotidianità delle nostre vite. Esattamente dove si celano i nostri mostri, numi tutelari e insieme carnefici delle nostre fantasie.

Oggi Stephen King compie 70 anni e, dopo 43 lunghi anni passati a vomitare su fogli bianchi le terrificanti eco dei mostri e delle inquietudini che gli popolano la testa, non ha certo bisogno del riconoscimento delle cariatidi che popolano le nostre università. Non ne ha bisogno lui, come non ne hanno bisogno i suoi lettori, nei cui occhi si vede lampante la moneta senza prezzo che hanno già ricevuto dalla frequentazione dei suoi mondi. Eppure, proprio ora che mancano poche settimane all’assegnazione del Nobel, sarebbe bello immaginare l’inimmaginabile: Stephen King premio Nobel che, in un buio giorno di dicembre, a Stoccolma per ritirare il premio dei premi, racconta una delle sue storielle private a quei parrucconi, terrorizzandoli.

Poco meno di un anno fa, Stephen King stesso si è ritrovato a discutere di una scelta dell’Accademia Svedese che ha scosso per settimane l’intero mondo della letteratura: l’assegnazione del Nobel a Bob Dylan. In quell’occasione, il Re, che di Dylan è un grande amante, scrisse in difesa della scelta, plaudendo al coraggio dell’Accademia e chiudendo la sua arringa difensiva con una frase memorabile.

«La maggior parte dei personaggi della musica pop», scrive King, «sono come falene che svolazzano intorno a una lampada per gli insetti; gli volteggiano intorno per un po’, poi c’è un lampo intenso e loro sono andati. Ma non Dylan». Una frase che non si fa molta fatica ad applicare al mondo della letteratura e che, in quel caso, rende perfettamente la dimensione di quello che il fenomeno King. In quanti degli scrittori contemporanei osannati dai critici, come quelle falene, scompariranno tra qualche volteggio in un lampo improvviso? Difficile dirlo, sicuramente la maggior parte. Ma sicuramente non King.

Non sono tanti i principi che guidano l’assegnazione del Nobel. Nel testamento di Alfred Nobel leggiamo un misterioso «to the person who shall have produced in the field of literature the most outstanding work in an ideal direction». A una persona che abbia prodotto nel campo della letteratura il più strabiliante lavoro in direzione di un ideale. Ora, King probabilmente non è il primo a cui pensiamo se cerchiamo un idealista. Ma resta veramente arduo accettare il fatto che si possa NON capire che dentro l’immenso universo di storie che ha prodotto fin qui Stephen King c’è tutta l’umanità, con tutte le sue paure, con tutte le sue meschinità e grandezze, nascoste nell’ombra della normalità e nella quotidianità delle nostre vite. Esattamente dove si celano i nostri mostri, numi tutelari e insieme carnefici delle nostre fantasie.

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