Facebook e Twitter hanno capito (finalmente) come combattere le fake news

Zuckerberg obbligherà gli inserzionisti politici a fornire più dettagli sulla loro identità per poter ricevere un’etichetta apposita. Jack Dorsey ha detto di voler devolvere 1,9 milioni di ricavi dalla pubblicità su Twitter di Rt e Sputink per la ricerca contro disinformazione

Kay Nietfeld / dpa / AFP

Lo scenario in base al quale i contenuti che viaggiano sulla rete possono essere in grado di cambiare drammaticamente l’esito di un’elezione e in generale di condizionare l’opinione pubblica appare distopico se non fuorviante, eppure a pensare al flusso infinito e interrotto di dati che ogni giorno assorbiamo non possiamo restare indifferenti né dare nulla per scontato. Lo scorso 31 agosto il World Economic Forum ha pubblicato una infografica che riportava dati impressionanti. In un solo minuto trascorso su Internet 900mila utenti accedono a Facebook, 3,5 milioni di persone effettuano ricerche su Google, vengono visualizzati 4,1 milioni di video su Youtube. Mentre state leggendo questo pezzo, in media in sessanta secondi vengono caricati su Instagram 46200 post e vengono inviati 452mila cinguettii su Twitter. Gli utenti della rete possono assumere atteggiamenti partecipativi e attivi, oppure possono semplicemente visualizzare ciò che scorre sui loro dispositivi mobili, rendendo l’assuefazione da web la declinazione moderna di dinamiche comportamentali abitudinarie. In entrambi i casi tuttavia, non si può ignorare l’influenza esercitata dal mezzo digitale.

Lo scorso 27 ottobre Mark Zuckerberg ha pubblicato l’ennesimo post per comprovare l’impegno tangibile a trovare una soluzione all’ultimo dei problemi emersi: il rapporto tra annunci pubblicitari in rete e influenza esercitata durante le campagne elettorali. Consapevole del fatto che quando si compra pubblicità sui media come la tv, si è tenuti per legge a svelare chi ha effettuato il pagamento, ha assicurato che Facebook intende elevare gli standard di trasparenza a un livello superiore. Innanzitutto per le inserzioni pubblicitarie non solo di carattere politico, verrà provato un meccanismo in base al quale chiunque potrà visionare quali pubblicità ci sono su qualsiasi pagina Facebook. Per le pubblicità politiche si sta lavorando a uno strumento che permetterà di accedere a un archivio delle pubblicità passate. Inoltre si potrà sapere quanto ha pagato l’inserzionista, la tipologia di persone che visitano quelle pagina e addirittura le loro reazioni. Gli inserzionisti politici in particolare dovranno fornire più dettagli sulla loro identità per poter essere contrassegnati da un’etichetta apposita e fornire quindi le informazioni relative ai pagamenti. Infine Zuckerberg ha detto che si stanno potenziando anche gli strumenti per scovare le violazioni alle nuove regole sia attraverso risorse umane, sia con strumenti informatici, il tutto lavorando gomito a gomito con le altre aziende tecnologiche per condividere criticità e ipotetiche soluzioni.

La disinformazione può essere intenzionale o meno, nel secondo caso è la conseguenza di superficialità e mancanza di accuratezza nella ricerca delle fonti, nel primo caso invece può nascondere un disegno ben preciso volto a raggiungere determinati scopi. La certezza assoluta di ottenere l’obiettivo desiderato probabilmente non può esserci ma insinuare il dubbio, polarizzare il dibattito pubblico e spostare l’attenzione su determinati temi o narrazioni costruite ad hoc non appaiono scenari inverosimili.

Soltanto il giorno precedente Jack Dorsey annunciava naturalmente su Twitter la decisione di bloccare le inserzioni pubblicitarie di Russia Today (RT) e Sputnik dopo che l’Intelligence Usa è giunta alla conclusione che entrambe hanno provato a interferire nelle elezioni americane dello scorso anno. Dorsey ha anche annunciato che i guadagni ottenuti grazie a quelle pubblicità da quando RT e Sputnik sono diventati inserzionisti nel 2011, ovvero 1,9 milioni di dollari, saranno destinati alla ricerca di strumenti volti a contrastare la disinformazione e i tentativi di manipolazione e interferenza sulla piattaforma.

La disinformazione può essere intenzionale o meno, nel secondo caso è la conseguenza di superficialità e mancanza di accuratezza nella ricerca delle fonti, nel primo caso invece può nascondere un disegno ben preciso volto a raggiungere determinati scopi. La certezza assoluta di ottenere l’obiettivo desiderato probabilmente non può esserci ma insinuare il dubbio, polarizzare il dibattito pubblico e spostare l’attenzione su determinati temi o narrazioni costruite ad hoc non appaiono scenari inverosimili. Intanto in Usa è già stato presentato di recente l’Honest Ads Act, che intende regolamentare gli annunci di carattere politico su piattaforme come Facebook, Twitter e Google per equiparare le norme a quelle valide per gli altri media. La proposta di legge è partita dai senatori del Partito Democratico Mark Warner e Amy Klobuchar, ma è appoggiata in parte anche dai Repubblicani, come John McCain. E proprio in settimana, il primo novembre Facebook, Twitter e Alphabet dovranno comparire davanti alla Commissione Intelligence del Congresso Usa per un’udienza pubblica sulle indagini relative al cosiddetto Russiagate.

Quale peso hanno avuto le piattaforme digitali più o meno indirettamente nell’ultima campagna elettorale americana e in generale, quanto incidono sul dibattito pubblico? Mentre gli ingranaggi legislativi e sanzionatori si mettono in moto, sullo sfondo c’è una società che deve ancora acquisire piena consapevolezza di un mezzo, quello digitale, che sta svelando più di un lato controverso.

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