Felici, banali, più soli: così il digitale ci ha cambiati

Il digitale soddisfa i nostri bisogni ma non riesce a indicare un progetto di futuro collettivo più ampio. Nella felicità dell’abbondanza questo è forse ciò che ci manca di più

(Pixabay / nastya_gepp)

Preso atto della diffusione del digitale in molti settori, dal retail, appunto, alla comunicazione, all’editoria, all’industria, l’esercizio fatto dall’Osservatorio Non Food di GS1 Italy nel tracciare il bilancio del decennio è quello di guardare al mondo digitale con gli occhi delle persone, grazie a Edmondo Lucchi, responsabile New Media di GfK, che ne propone una lettura socio-antropologica.

La digitalizzazione con la possibilità di condividere in ogni momento e in ogni luogo il patrimonio di conoscenze, teoricamente con tutte le persone che popolano la terra, rende possibile la mente condivisa dell’umanità. Di più. «Il digitale è felicità, perché se la felicità è soddisfare un desiderio, il digitale permette di entrare in contatto con ogni informazione e esperienza che si possa tradurre in testo, immagine o suono. E permette di selezionare quello che desideriamo. Il digitale è una grande piattaforma del desiderio, perché l’individuo è esposto a sterminate opportunità di scelta. Oltretutto è gratis». E infatti nel vissuto delle persone la digitalizzazione è collegata per lo più con attributi di valore positivo (velocità, libertà, piacere, forza, vicinanza, facilità, ecc.).

Proseguendo nell’analisi, Lucchi individua tre paradigmi del mondo digitale, che corrispondono ad altrettante stratificazioni tecno-antropologiche.

  • La fase 1.0, caratterizzata da raggiungibilità e indicizzazione dei contenuti e da una informazione globale e accessibile: intelligenza condivisa, efficienza, prestazionalità, emozione nello scoprire di poter fare queste cose attraverso i motori di ricerca sono gli elementi che la definiscono.
  • La fase 2.0 è la piattaforma dell’identità sociale e dei contenuti video della società digitale, caratterizzata dai social network, dall’intrattenimento, dalla convivialità, dall’espressività che coinvolgono tutto il campo delle emozioni.
  • La fase 3.0 è la realtà digitale, nella quale la portabilità e l’accessibilità dei dispositivi digitali offrono pervasività e immediatezza in un contesto di normalizzazione e di abitudine. Di comfort. Lo strumento principale sono le piattaforme di messaggistica (WhatsApp).

«Per le imprese che intraprendono un percorso digitale rispettare questi tre paradigmi è fondamentale. Se li scambiamo facciamo pasticci, perché il vissuto di ognuno è diverso. Per esempio il social marketing è irrilevante per l’1.0 e per il 2.0 e alcuni ambiti non sono coinvolti. Vi sono alcuni mondi di senso nel retail che devono ancora essere studiati», mette in guardia Lucchi.

Fig. 1 – Alcuni esempi di tecno-antropologie retail

«Il mondo digitale è aperto a ogni emittente, a ogni informazione, a ogni esperienza mentale. Trascina qualunque soggetto e organizzazione in un universo “orizzontale”, paritetico, senza gerarchie, senza riferimenti di valore. In una parola banalizza, non sviluppa grandi narrazioni e non può fornire una visione d’insieme»


Edmondo Lucchi, GfK

Vi sono però anche delle ombre nella società digitale, che mostra un’ambivalenza percepita anche dai consumatori. E segnatamente. Nell’1.0 la potenza può generare distrazione, inadeguatezza e disuguaglianza (a livello di individui, di organizzazione, di nazioni). Nel 2.0 la società digitale può sviluppare esposizione indebita, prepotenza, aggressione, tribalismo, confusione, menzogna, calunnia. Perché anche queste sono le dinamiche dei gruppi e delle società umane. Nel 3.0 l’immediatezza assoluta può generare inconsapevolezza e automatismi incontrollabili. «Occorre da parte delle imprese», afferma Lucchi «essere consapevoli di queste ambivalenze, gestirle e farsene carico».

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