Perché Che Guevara oggi non si metterebbe la maglietta del Che

Ernesto Guevara de la Serna, passato alla storia come il Che, fu assassinato all'alba del 9 ottobre del 1967 da un commando di militari boliviani e l'aiuto della CIA, da allora sono passati 50 anni e, con lui, sembra morta l'idea stessa di ribellione e rivoluzione in tutto l'Occidente

Anche a distanza di 50 anni, la morte di Ernesto Guevara de la Serna, avvenuta ufficialmente all’alba di lunedì 9 ottobre 1967, nel piccolo villaggio de La Higuera, in Bolivia, è avvolta dal mistero e tante sono le versioni contraddittorie che si accavallano. C’è la versione dei militari boliviani, che vuole il Che morto dissanguato in seguito alle ferite ricevute in combattimento la domenica pomeriggio; c’è la versione di chi vuole il commando di guerriglieri guidati dal Che caduto in una imboscata per volere dei sovietici e con l’avvallo di Fidel Castro.

C’è poi chi, dopo decenni di silenzio, confessa di averlo ucciso con due sventagliate di mitraglietta, la prima alle gambe, la seconda all’altezza del cuore. Infine c’è quella, la più realistica, che racconta che il medico rivoluzionario argentino fu sì ferito il giorno precedente in un’imboscata, ma anche che le ferite ricevute non erano mortali e che, invece, a ucciderlo fu una singola pallottola, sparata all’altezza del cuore dal capitano Gary Prado Salmon. A quest’ultima storia c’è una postilla confermata da un rapporto della CIA: quando il suo assassino si avvicino con la pistola in mano, l’argentino gli disse le sue ultime parole: «Know this now, you are killing a man». Sappilo, stai uccidendo un uomo.

Ernesto Guevara, il Che, non era semplicemente “un uomo”. All’epoca, nel 1967, aveva 39 anni ed all’apice della sua vita politica. Lasciata Cuba e il ministero dell’Industria nel ’65, dopo un’avventura disgraziata in Africa, Guevara era tra gli uomini più ricercati del pianeta dai servizi americani, era l’eroe di tutto un continente, quell’America Latina che proprio dalla Bolivia pretendeva di poter liberare dalla morsa dell’imperialismo americano. Era già un mito, e lo sarebbe diventato ancora di più dopo il maggio francese, dopo che Andy Warhol, nel ’68, giocò con la celebre foto di Korda. Divenne un’icona da magliette, un’industria. Ma era anche il simbolo di qualcosa che andava molto se stesso, era il simbolo stesso della ribellione.

Quel giorno a La Higuera non morì soltanto l’uomo, né soltanto il mito. Morì la possibilità stessa, per il futuro che per noi oggi è il presente, di una vera ribellione. Morì quell’uomo nuovo che Guevara sperava nascesse grazie all’esempio suo e di altre diverse centinaia di donne e uomini che, per circa una decina d’anni, avevano coltivato il culto di quella novità in arrivo, sperato in quella evoluzione.

Inutile sopravvalutare però il soldatino boliviano. Non è colpa di quella pallottola se oggi siamo qui a languire nel disagio e a lamentarci delle nostre sventure piuttosto che cercare di cambiare la realtà che abbiamo di fronte. Se infatti all’alba del 9 ottobre 1967 fu una pallottola a uccidere Che Guevara, nei decenni successivi le armi non servirono più. Bastarono due fantasmi socioculturali che fecero strage dell’intraprendenza dell’intera classe piccolo borghese occidentale e che ne nutrirono la pavidità che ancora ci accompagna: l’individualismo senza freni e il pacifismo capito male e applicato peggio.

Il primo, l’individualismo contemporaneo, ben lungi dal somigliare a quello di matrice anarco-sindacalista o umanista che metteva l’individuo al centro di una comunità, è un individualismo della ragione, una solitudine morale autocentrica che ha azzerato l’importanza della comunità a favore del singolo, ha distrutto la solidarietà spingendo l’opportunismo e ha messo al centro delle nostre vite la competizione invece che la cooperazione. Il risultato di questo individualismo è semplice: ognuno di noi è diventato un Mondo e nessuno è più disposto a rischiare la propria vita per gli altri, “for the greater good”. Quello che ha spinto tutti i rivoluzionari della storia è un altruismo che oggi ci suona totalmente sconsiderato: chi di noi sarebbe disposto a rischiare qualsiasi cosa, figuriamoci la vita, per della gente con cui non solo non ha più niente a che fare, ma che ormai odia e disdegna?

Il secondo fattore mortale per lo spirito rivoluzionario è quella sorta di pacifismo slavato e depotenziato di ogni carica insurrezionale. Pare strano pensarci ora, ma il pacifismo nasce sostanzialmente come una tattica di lotta e di resistenza. Era un pacifismo violento quello di Gandhi, non la resa incondizionata che è ormai diventato, identificato con il cristiano “porgi l’altra guancia”,ma all’infinito. Snaturato della sua dimensione tattica, il pacifismo è diventato la scusa per non cercare mai e poi mai lo scontro, sia fisico che verbale, per giustificare a se stessi la paura istintiva e sacrosanta di andare addosso a un nemico che sembra soverchiante — in tutte le rivoluzione, all’inizio, il nemico sembra soverchiante, se no non servono le rivoluzioni per sbarazzarsene — ma che tutte le generazioni prima delle tre che sono al mondo in questo momento hanno superato.

L’alba del 9 ottobre 1967, a La Higuera, hanno ucciso solo un uomo. Il problema vero è stato che, nei successivi cinquant’anni, milioni di persone si sono arrese prima ancora di cominciare a impegnarsi e a lottare. Siamo noi, che abbiamo il cassettone dell’armadio della cameretta di casa dei nostri genitori ancora piena di magliette del Che. “Bisogna essere duri senza mai perdere la tenerezza”, “Hasta la victoria siempre!”, “Non un passo indietro, nemmeno per prendere la rincorsa”. Tutto vero. Tutto bellissimo. Come vera è la pelle d’oca che ci viene a pensare a cosa diavolo poteva combinare un uomo applicando alla propria vita un ideale e una volontà di ferro. Ma ciò non toglie che noi non siamo stati in grado nemmeno di provarci

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